Pubblichiamo un intervento di Claudio Petruccioli la cui data (1997) lo rende solo in apparenza superato, se solo pensiamo all’attuale dibattito interno al Partito Democratico.
Nel congresso del Pds di febbraio 1997 io insieme con le persone con cui mi ero collegato durante un anno di incontri culturali e di discussioni politiche, partecipammo presentando degli emendamenti e facendo la nostra battaglia congressuale. Non ci definivamo altrimenti che come “firmatari degli emendamenti Barbera[1] ed altri”, ma dopo l’impegno congressuale decidemmo di darci una configurazione più stabile e – intanto – una denominazione finalmente meno occasionale. La scelta cadde, per ovvie ragioni sul binomio “La quercia e l’ulivo”. Il primo convegno dell’associazione si tenne nella bella sala Carisbo di Bologna il 21 giugno 1997; il tema – tanto generale quanto ambizioso – era “Un’idea di politica, un’idea di sinistra”. Fui incaricato di svolgere la relazione introduttiva; di cui qui riporto solo la parte di riflessione culturale, tralasciando tutto quanto riferito alla attualità politica, anche se importante.
### Oggi non si può parlare di sinistra, o usare il termine sinistra, senza impegnarsi a definirla, a indicarne i fondamenti analitici, i riferimenti culturali, la concezione della persona, della società, della politica. Non si può proporre la sinistra al giudizio, alla fiducia dei nostri contemporanei, soprattutto se giovani evitando di cimentarci con questo lavoro. Voglio essere chiaro e sincero nella misura massima di cui sono capace. Io sono legato alle tradizioni della sinistra, della sinistra emanata dal movimento operaio; il mio legame non è solo conseguenza del fatto che in quella sinistra ho trascorso tutta la mia vita politica e gran parte della mia vita; ha origini personali, familiari; è un legame che non riguarda solo la politica, ma riguarda il mio intelletto, le mie idee, le mie passioni, il mio modo di pensare e di sentire, il mio essere umano.
Sono divenuto progressivamente consapevole degli errori, teorici e pratici, degli equivoci, delle illusioni, dei crimini di cui la sinistra è responsabile, di cui sono responsabili persone che hanno agito in funzione e a vantaggio della sinistra con assoluta convinzione e limpida buona fede. Mi sono reso progressivamente conto che errori, illusioni e crimini sono scaturiti non solo da interpretazioni settarie o da esasperazioni soggettive, ma sono derivati necessariamente da idee e da propositi che la sinistra, negli ultimi due secoli, ha posto a fondamento della propria azione, della sua stessa ragion d’essere. Sono oggi convinto che non si possano correggere errori, dissipare illusioni, condannare crimini se non si sottopongono a critica sincera e severa le premesse teoriche e culturali, i vizi del pensiero e le arroganze della volontà.
Solo a seguito di questa raggiunta e dichiarata consapevolezza, sento che mi è possibile sottolineare e valorizzare tutto lo straordinario apporto di sacrificio, di generosità, di costruzione per conquistare a milioni di persone escluse e dominate, livelli di dignità, di tranquillità e di sicurezza che rendono la vita accettabile; tutto il contributo alle conquiste di libertà, alla resistenza contro odiose forme di barbarie, l’apporto al progredire e all’arricchimento della civilizzazione umana, l’impulso vivificatore a non rassegnarsi di fronte a limiti, a vincoli, a soggezioni che impoveriscono o umiliano gli uomini e le donne, anche un solo uomo o una sola donna, a non considerare come leggi fisiche inevitabili, come la legge di gravità, i meccanismi, le relazioni che generano disuguaglianza e soggezione; a non rinunciare mai allo sforzo di pensare situazioni migliori di quelle nelle quali ci troviamo, e non abbandonare mai l’impegno per cercare di realizzarle. Anche tutto questo di buono è stata la sinistra nella quale io sono stato; tutto questo dà corpo e senso alla tradizione della sinistra, in Italia e in Europa, nella quale oggi sono, voglio essere, ho faticato per potermi trovare.
Dico la tradizione che si esprime oggi nella Internazionale Socialista, di cui il Pds è partecipe, nel Partito del Socialismo Europeo, di cui il Pds è cofondatore. Ne sono contento, mi rassicura e mi rafforza; e mi ripaga anche delle amarezze e delle incomprensioni che – certo meno di altri, più esposti e più autorevoli – anche io ho conosciuto quando il lavoro per realizzare questo obiettivo era più ingrato e meno apprezzato. Senza questa tradizione che si estende per oltre un secolo, non sarebbe neppure possibile, oggi, parlare di sinistra, immaginare la sinistra.
Di tutto ciò sono consapevole, convinto, soddisfatto. Ugualmente, e senza con ciò sentirmi in contraddizione, se passo al vaglio il passato, se guardo il presente e cerco di progettare per il domani qualcosa che mi appaia fondato e credibile, penso che la sinistra non abbia futuro se non si presenta e non ragiona come un’altra sinistra rispetto a quella passata e presente. Le finalità generali e ultime della sinistra vanno ricollocate in un nuovo universo concettuale, dentro nuovi modelli razionali.
Non credo che possa avere un futuro e abbia una qualche capacità di attrazione una sinistra che affidi la propria capacità critica a una logica sistemica, per cui l’accettazione e il rifiuto comprende e riguarda sistemi nel loro insieme, nella loro interezza; o che mantenga il classismo e lo statalismo fra i suoi fondamenti; che resti legata a una concezione della politica e del partito demiurgica, onnipotente, calata sui cittadini dall’esterno perché fondata su “livelli di coscienza” che non sono alla portata di tutti ma chiedono una “iniziazione”, una conquista; che vagheggi il “primato della politica” sulla società civile, guardata con diffidenza e distacco.
Non credo che il riferimento, l’apprezzamento per la tradizione della sinistra, europea e anche italiana, inibisca il distacco, la critica più decisa verso queste posizioni, queste idee, che pure sono stati capisaldi essenziali nella storia, nella costruzione di quella stessa tradizione. Se le due cose fossero dichiarate o risultassero incompatibili, io ne sarei molto mortificato e deluso; soprattutto perché penserei che la sinistra non riuscirebbe ad aprirsi la strada verso il futuro.
### Quando abbiamo deciso di dar vita ad una nuova formazione politica della sinistra, abbiamo scelto, per identificarci, di riferirci alla democrazia: Partito democratico della sinistra. Quali sono state le ragioni di questa scelta? Io non pretendo di dire le ragioni condivise da tutti; anche perché non pochi, come è noto, anche fra quanti erano convinti della necessità e della opportunità di dichiarare conclusa la vicenda del Pci, non condivisero, almeno non del tutto, questa decisione, e avrebbero preferito altri riferimenti, più riconducibili alla storia e alla realtà del lavoro e al movimento operaio. Ricordo, però bene, quali furono le motivazioni mie – e, naturalmente, non solo mie -.
La motivazione principale non era la necessità di mettere l’accento sulla democrazia perché negata e trascurata dal pensiero e dalla pratica comunista, in particolare laddove il comunismo aveva dato vita a concreti sistemi sociali e politici; e perché, infine, aveva provocato la debolezza, fino alla caduta, di quei regimi. Questa intenzione era presente, ma non in modo decisivo, né prevalente. La ragione più importante, direi essenziale, era – ed è – che la democrazia non va considerata (come per lungo tempo, e da molte parti nella sinistra, non solo in quelle di ispirazione comunista, si è inteso) uno stadio apprezzabile, se si vuole essenziale, della emancipazione e della liberazione delle persone, e tuttavia incompiuto, da completare con qualcosa di altro che la democrazia stessa non può dare. Questa concezione, questa visione della democrazia segna il limite forse più serio del pensiero e della pratica della sinistra e del movimento operaio: la democrazia è stata importante, vincolo da non negare, se si vuole valore da affermare ma non energia, risorsa dei processi ai quali è affidato il miglioramento delle condizioni umane, per i singoli e per le società. La sinistra è stata a lungo convinta, e forse in parte lo è ancora, o lo è una sua parte, che con quella sola risorsa si può arrivare solo fino ad un certo punto; per andare oltre ci vuole qualcos’altro.
Quando una forza della sinistra, alla fine di questo secolo, sceglie la democrazia per identificarsi, afferma che la democrazia è la risorsa della liberazione, della emancipazione, del miglioramento della vita delle persone, in tutti i suoi aspetti; che non ci sono traguardi di libertà e di dignità umana che non siano raggiungibili con la democrazia, attraverso la democrazia e grazie alla democrazia. Quando da sinistra si ritiene che ci sia qualcosa alla quale viene attribuito valore che non può essere chiesto alla democrazia, la cui conquista non può essere affidata alla democrazia, il limite, l’errore, non è nella democrazia, ma nel modo in cui, da sinistra, si pensa, si ragiona. Scegliere la democrazia per identificarsi, per una forza della sinistra vuol dire assumere la democrazia anche come metro di misura della validità della propria azione; vuol dire affermare una concezione e una pratica della politica non demiurgica, non onnipotente quindi non autoritaria o persino totalitaria; vuol dire collocarsi in una visione laica, ragionevole. non finalistica o ideologica della storia, per cui gli uomini e le donne sono capaci di progettare e realizzare miglioramenti, anche grandi, nella loro condizione; ma sanno, anche, che questi miglioramenti sono conquiste faticose e reversibili, e che sono fondate sull’esercizio di responsabilità, individuale e collettiva, da parte delle persone.
Tutto questo vuol dire la scelta della democrazia; scelta che è ben consapevole di essere essa stessa continuamente esposta a minacce e perfino a incoerenze da parte di chi pure la compie con onestà e convinzione; di non essere quindi compiuta una volta per tutte, di non essere garantita da alcuna legge del progresso. Questa “precarietà” della democrazia è indissolubilmente connessa con la sua forza, con le ragioni che ce la fanno scegliere; l’essere, cioè, continuamente misurabile, verificabile, il metterne la misura e la verifica nelle mani dei cittadini. Ecco, questa è stata la ragione della scelta del partito democratico della sinistra.
### Se la sinistra non si basa più su una concezione sistemica (classista-sistemica) del socialismo, se con la parola “socialismo” si intende riferirsi fondamentalmente a una esperienza, alla parte migliore di una esperienza, allora sono necessari nuovi riferimenti, che vanno cercati, definiti, enunciati. Altrimenti si determina una perdita di forza interpretativa dei processi della realtà, una ipocrisia – quindi una infezione antidemocratica – nel rapporto con i cittadini in generale, ma in modo particolare con i seguaci, i militanti; e si creano le premesse per una gestione opportunistica e burocratica della politica. E’ doveroso dire in quali termini la sinistra deve cambiare.
Si tratta di spostare la attenzione, la cultura, la politica, i programmi, le idee, della sinistra in modo da renderle vive e consistenti anche senza fondarle sul riferimento a un sistema sociale altro, organicamente altro. La sola via che consente di raggiungere questo risultato è assumere come riferimento essenziale l’individuo, la persona. E’ un cambiamento fondamentale. Anche nelle correnti e nelle versioni che non hanno respinto né sottovalutato i principi e i valori della libertà e delle libertà, nel corso di questo secolo la sinistra – così come è stata e come l’abbiamo conosciuta – non ha mai assunto l’individuo, la persona, come riferimento decisivo, nella propria visione e nella propria azione. Certamente, fra gli obiettivi della sinistra c’è stato, anche, il miglioramento delle condizioni di vita, di lavoro dell’individuo, degli individui, e non solo in termini materiali, ma anche sotto l’aspetto delle libertà. Anche nel bagaglio ideale del comunismo e nel pensiero di Marx che gli dava fondamento: da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni; la fine della alienazione per tutti gli individui, anche per i capitalisti, che sacrificano tutti, anche sé stessi alla disumanizzazione dell’uomo in merce; la estinzione dello Stato, cioè l’estremo ideale liberale e anarchico che consegna all’individuo una libertà e una responsabilità senza limiti; e così via.
Ma tutto ciò era l’effetto del cambiamento del sistema, della trasformazione delle strutture economico-sociali; di fronte al quale l’individuo non ha e non può avere alcuna possibilità di incidenza; né in termini pratici, politici, come capacità di influire sulla realtà, di determinare effetti significativi e rilevabili, né – e prima ancora – in termini teorici, culturali, come capacità di capire, di vedere, di cogliere la “sostanza” delle situazioni e dei processi. L’individuo, la persona, nella sostanza non è mai stato, per la sinistra, il protagonista, il soggetto, la risorsa strategica; poteva essere il beneficiario, in termini materiali della trasformazione perseguita dalla sinistra, ma non ne era il motore. Altri sono stati per la sinistra, i motori del cambiamento, i soggetti e le risorse che si dovevano attivare; e tutti tali da trascendere l’individuo: la classe, il partito, lo Stato.
Io credo che la discontinuità culturale, programmatica, organizzativa che la sinistra deve realizzare riguarda esattamente questo punto: l’individuo, la persona, devono essere assunti tanto come riferimento teorico, quanto come soggetto politico, come metro di misura e come protagonista, come risorsa dei cambiamenti, della loro realizzazione, del giudizio che su di essi si deve dare[2].
Senza questo riferimento non è possibile parlare di democrazia. Se la valutazione degli atti e delle scelte politiche non viene ricondotta all’individuo, ma viene riferita a qualunque valore, istanza o criterio che lo trascenda, la democrazia perde di senso e di fondamento. Ma, oltre questo riferimento generale, ci sono considerazioni storiche che hanno una grande importanza. In forma assolutamente schematica si può dire che la sinistra è stata costretta, nel passato, ad assumere riferimenti che trascendono gli individui, le persone, dal livello relativamente basso di sviluppo della società, della produzione, della cultura, della informazione. Il concetto di proletariato e di proletario riassumono e danno il senso preciso di ciò: ci si riferiva, con tali concetti, ad un livello di sviluppo della società e della produzione, a forme di organizzazione del lavoro e di coinvolgimento degli individui che oggi ci appaiono molto elementari, per cui il “lavoratore tipo” non disponeva di altro che della propria naturalità, della propria energia fisica.
In queste condizioni poteva apparire – e, in un certo senso, era – necessario trascendere tale condizione individuale. Oggi la situazione è assolutamente diversa: il lavoro, la produzione, la informazione, la comunicazione, le norme e le organizzazioni che intervengono nei diversi campi della vita umana sono tali per cui gli individui non devono trascendere se stessi, negarsi per proporsi miglioramenti nelle condizioni materiali e intellettuali della propria esistenza, per estendere la propria capacità di controllo e di padronanza su un numero crescente di occasioni che riguardino la vita propria e la vita delle persone con le quali hanno rapporti più stretti e impegnativi.
Non solo, dunque, in riferimento al problema storico della democrazia, che ha travagliato, diviso la sinistra e, infine, provocato il fallimento delle esperienze che avevano voluto negarla, ma anche e – a questo punto – soprattutto in riferimento alla possibilità di svolgere la propria funzione di innovazione, di miglioramento, di liberazione, la sinistra deve compiere questa rivoluzione copernicana: mettere l’individuo, la persona al centro del proprio universo, dove sono stati collocati in passato la classe, il partito, lo Stato; e deve farlo con la convinzione e la forza di chi pensa che in tal modo non solo non si abdica alla funzione critica e innovatrice, a valori di riscatto, di innalzamento, di uguaglianza e di solidarietà, ma anzi si mobilitano finalmente tutte le risorse disponibili, tutte le risorse storicamente presenti, mature, attive.
### La sinistra non solo per ragioni che concernono la doverosa autocritica di fronte ai fallimenti storici delle esperienze del “socialismo reale”, non solo per coerenza con la scelta democratica, ma anche a seguito di un aggiornamento teorico e culturale di fronte alle innovazioni che segnano la esperienza delle persone, nel lavoro, e di fronte alle nuove occasioni offerte dallo sviluppo delle società e dalla crescita delle capacità delle persone, è messa alla prova di una grande riconversione: la scoperta, la valorizzazione dell’individuo. Questa è, contemporaneamente la conclusione necessaria di una riflessione critica sul passato e la premessa per aprire le prospettive per il futuro.
Dopo il crollo del muro e dei regimi comunisti, si è aperta, nella sinistra, almeno in Italia, una discussione, una ricerca, intorno ai rapporti con il liberalismo. Talvolta, questa discussione viene immiserita per esigenze di polemica. Ma io non voglio andar dietro alle polemiche che ostacolano, anziché agevolare la messa a fuoco di una questione importante. Non è un caso che ce la siamo trovata davanti, con assoluta evidenza, dal primo momento nel quale abbiamo messo mano alla svolta (cioè, alla costruzione di una sinistra nuova per cultura, programma, organizzazione). Non che prima non esistesse; ma, nella generalità dei casi erano altri a proporcela e noi argomentavamo in modo più o meno convinto al fine di rifiutarla. In realtà, tutti coloro che si propongono di realizzare la svolta o che sono chiamati ad “amministrarla”, hanno dovuto e devono cimentarsi con questo problema; da Occhetto a D’Alema a Veltroni.
Il rapporto con il liberalismo, pone alla sinistra la questione più impegnativa, perché tocca il punto sul quale il socialismo ha le carte meno in regola, il punto che considera l’individuo come principio e riferimento della libertà e delle libertà. Il socialismo si è fondato su una critica e sul rifiuto di questo cardine del liberalismo. La liberazione indicata promessa e perseguita dal socialismo, che pure riguarderà gli individui, non può, tuttavia, essere raggiunta e costruita in una ottica individuale; anzi, in questa ottica non può neppure essere percepita. Perché ciò avvenga, è necessario abbandonare il punto di vista individuale per assumerne uno diverso; il punto di vista della classe, o della storia; comunque non quello individuale. La condizione degli individui, quindi anche la loro libertà, è determinata da strutture, e le strutture si compongono in sistemi. La libertà, dunque, è una conseguenza delle strutture e dei sistemi; l’azione politica, per essere efficace, deve mirare alla modifica delle strutture e dei sistemi; deve essere elaborata e condotta attraverso organizzazioni che siano esse stesse modellate e orientate in modo da poter incidere sulle strutture e sui sistemi. La politica non può assumere l’individuo come metro e giudice, perché se facesse questo perderebbe la capacità di vedere e – a maggior ragione – di perseguire l’obiettivo vero, importante, decisivo.
Due cose dobbiamo dire e dirci. La prima: che le aporie nelle quali si è cacciato, su questo punto, il pensiero socialista, si sono rivelate insuperabili. Se si sono voluti mantenere fermi i pilastri di questa concezione, si è cancellata la libertà; se alla libertà si è reso omaggio, sia nella teoria che nella pratica, si sono dovuti abbandonare quella concezione e i pilastri sui quali essa si fonda, vale a dire una concezione della società, una concezione della storia, una concezione della politica. Spesso si è trattato di un abbandono “di fatto” senza fare i conti con le verifiche e le correzioni che esso comportava e comporta; quindi qualcosa di opportunistico, che ha continuato a tenere in vita stereotipi culturali e concettuali, formule, definizioni, identificazioni alle quali non corrisponde più la teoria, il pensiero che le giustifica e dà loro senso.
La seconda è una domanda: è vero che a partire dall’individuo e dalla sua libertà, assumendo l’individuo come risorsa e soggetto è impossibile per la sinistra progettare e percorrere il proprio itinerario? O non siamo, invece, oggi, in condizioni oggettive e soggettive per cui gli obiettivi della sinistra possono finalmente essere pensati e realizzati proprio a partire dall’individuo, dai suoi bisogni, dalle sue capacità, dalle sue aspirazioni e affidandosi al suo giudizio, alle sue scelte, alle sue decisioni? E, anzi, questa via è oggi non solo possibile, ma è la migliore, quella più efficace?
Se è così, allora non solo la democrazia, ma anche il liberalismo non sono dimensioni non congeniali, ostiche per la sinistra; la sinistra non deve censurarsi o snaturarsi per frequentare l’una e l’altro. Non ci sarà più una posizione – la destra – che esalterà l’assoluto individuale, e un’altra – la sinistra – che esalterà l’assoluto sociale. Il riferimento essenziale, in termini sociali e politici, delle libertà e della politica, sarà per tutti l’individuo; e ci sarà un modo di destra di pensare, di sentire l’individuo, di sentirsi individui; e ci sarà un modo di sinistra; e a questi corrispondono modi diversi di ragionare, culture diverse, e modi diversi di intendere vantaggi e svantaggi, diverse priorità, diversi funzionamenti della società.
### In base alla valutazione delle possibilità che ci si offrono oggi, delle occasioni consentite dalla crescita delle conoscenze, delle comunicazioni, della disponibilità di beni materiali e di servizi, di quello che Marx definiva lo sviluppo delle “forze produttive”, possiamo identificare la democrazia e il liberalismo come riferimenti comuni di una civiltà condivisa. Il che non vuol dire considerarli conquiste irreversibili, perché di irreversibile non c’è mai nulla e perché daremmo una rappresentazione falsa se non vedessimo nel mondo di oggi squilibri e conflitti tali da poter far pensare al sorgere di spinte e processi che si propongono di mettere in discussione o cancellare tanto le libertà fondamentali quanto le garanzie e gli istituti della democrazia. Di fronte a queste minacce, che si presentino in veste di destra o di sinistra, si dovrà combattere con la solidarietà e la determinazione richieste quando si difendono le basi della comune civiltà.
Entro i riferimenti condivisi, la competizione fra destra e sinistra non solo non saranno tenui o insignificanti, ma assumeranno importanza e peso sempre maggiori. Non si tratterà di un confronto a basso tasso di tensione antagonistica perché interno a un “sistema” che non si vuole cambiare. Continuare a ragionare così, da qualsiasi parte, ma soprattutto nella sinistra – visto che di questa ci occupiamo più direttamente e nella sinistra siamo noi – è ormai insostenibile e insopportabile. Non solo perché si immiseriscono le conquiste del liberalismo e della democrazia legandole a condizioni storiche e sociali determinate e caduche, anziché considerarle per quelle che sono, conquiste di civiltà dalle quali far di tutto per non regredire; ma perché ci si attarda entro una logica di “sistemi” che irrigidisce e drammatizza i conflitti, svaluta i mutamenti anche rilevanti perché considerati parziali, non complessivi, prefigura e privilegia un andamento dei processi storici fondato su strappi e rotture.
Sulla base dei principi condivisi del liberalismo e della democrazia, e al livello di civilizzazione che ne deriva, la competizione fra destra e sinistra non solo non è destinata ad esercitarsi su margini ristretti o poco rilevanti; ma può assumere e assumerà sempre di più evidenza e importanza grandi, per le conseguenze che ne deriveranno, in quanto le scelte si eserciteranno sulle alternative che di volta in volta si presenteranno, e – inoltre – avverranno nella piena responsabilità di tutti i cittadini. Mai nella storia umana si sono riscontrate condizioni tanto favorevoli per rendere possibili decisioni rilevanti da parte della generalità delle persone.
Quale è la differenza fra destra e sinistra nel modo di assumere l’individuo e la sua libertà come riferimento essenziale? Non è certo in distinzioni che pure hanno avuto corso, fra libertà formali e libertà sostanziali, fra universalità astratta del cittadino e concretezza materiale del lavoratore; argomenti ciascuno dei quali ha una sua parte di verità ma che, utilizzati in questo quadro, finiscono per negare l’individuo e per lasciarlo alla destra, ben lieta di innalzarlo a bandiera ideologica.
Non sono vere – e comunque non lo sono per me – le due equazioni: destra uguale individuo e suoi interessi, sinistra uguale società e bene comune. La alternativa non è fra queste due false equazioni; una sinistra che la accettasse o la subisse sarebbe liquidata. L’alternativa che dobbiamo pensare, costruire è fra un modo di destra di considerare l’individuo (selezione, competizione assoluta, egoismo, isolamento, mors tua vita mea, gioco a somma zero) e uno di sinistra (la convenienza della cooperazione, l’importanza delle relazioni, gioco a somma più).
La sinistra, per caratterizzarsi, non deve affatto comprimere il valore dell’individuo, mostrarsi restia a vedere nell’individuo il punto di riferimento, il criterio di misura dei programmi di cambiamento economico, sociale culturale, e della azione politica. Deve fare esattamente l’opposto. Deve esaltare quel valore, consapevole del fatto che oggi il valore degli individui è già ad un livello tale per cui far leva su di esso comporta e consente di fissare e raggiungere traguardi molto impegnativi, di realizzare conquiste molto complesse, tanto nel campo dei diritti quanto in quello della crescita; consapevole, inoltre, che il numero di individui che sono ad un alto livello qualitativo non è scarso, ma è già grande e tende a crescere molto rapidamente; consapevole infine che la sua stessa azione ha, fra i suoi obiettivi più importanti e permanenti, quello di accrescere tanto il numero degli individui in condizione di attingere ad alti livelli di qualità, quanto il punto al quale si trovano questi stessi livelli.
L’azione politica della sinistra si propone di creare le migliori condizioni affinché il maggior numero di persone possa usufruire del maggior numero di occasioni e possa usarne con la maggiore competenza, consapevolezza e padronanza; l’azione politica della sinistra si propone, contemporaneamente e in modo complementare, di creare le condizioni che impediscano, fino possibilmente ad eliminarli del tutto, processi e situazioni di esclusione e di emarginazione delle persone.
### La sinistra deve esaltare il valore dell’individuo, assumerlo come risorsa strategica, motore dei processi, riferimento della bontà e della efficacia degli obiettivi e degli interventi guardando all’insieme delle capacità di cui effettivamente l’individuo dispone: conoscenze, informazioni, sentimenti, desideri e aspirazioni, abilità naturali o acquisite; e soprattutto relazioni. Questo, le relazioni, cioè i rapporti con gli altri individui, di qualunque tipo, è il punto sul quale la sinistra deve concentrare particolarmente la sua attenzione; la destra propende, infatti per una concezione dell’individuo che spesso viene definita “assoluta”, cioè sottratta ad ogni vincolo; e, fra i vincoli, si considerano, anche, i rapporti con gli altri individui, e, in fin dei conti, gli altri individui in se stessi. Ci sono tendenze della destra che considerano valori positivi la concorrenza e la selezione più spietate, la prevalenza del più forte e la soggezione – se non l’annullamento – del più debole, la gerarchia; questi, tuttavia – per quanta ripugnanza producano in noi – sono modelli di relazioni; agli antipodi di quelli accetti alla sinistra, non rifiuto delle relazioni. Quando il confronto avviene intorno a quale sia il “tipo” di relazioni da preferire, da promuovere, da valorizzare, si tratta di un confronto limpido, non ingannevole, nel quale non bara nessuno; e che consente a chiunque di prendere posizione, di scegliere in un senso o nell’altro.
Subdolo è invece l’argomento – e la pretesa – che ci sia una concezione dell’individuo in sé più coerente o, se si vuole, più drastica, più radicale, più assoluta appunto; e che tale sarebbe in quanto considera l’individuo privo di ogni relazione, poiché ogni relazione, di per sé rappresenterebbe un condizionamento e, quindi, una violazione della idea assoluta di individuo. Questa teoria, giustamente, viene considerata congeniale alla destra e nient’affatto congeniale alla sinistra. Ma non ha alcun fondamento la pretesa di ricondurre a questa concezione il liberalismo tutto intero. Nulla infatti autorizza a considerare le relazioni con altri individui un vincolo e non una ricchezza per l’individuo stesso. Più che una concezione assoluta, quella appare una concezione autistica dell’individuo. Un modo per comprimere e bloccare, chiudere l’individuo, non per valorizzarlo, per promuoverne ed esaltarne la espansione. Del resto, anche nel pensiero liberale, che cosa è la “morale” se non la norma delle relazioni fra gli individui?
### Tanti (penso a Dahrendorf, o a Habermas, per fare solo due nomi, fra i maggiori) riflettono intorno alle relazioni nelle quali sono coinvolti gli individui e lo fanno convinti che in esse si identifichino gli ambiti di libertà o – al contrario – di soggezione, di arricchimento o di impoverimento dell’individuo stesso. Ecco, io penso che questo debba essere considerato, oggi, un filone di pensiero non a fianco della sinistra, ma partecipe a pieno titolo, costitutivo della sinistra. Preferisco parlare di questo, anziché di Clinton e di Blair per un motivo molto semplice; perché mentre nei confronti delle tradizioni e delle personalità politiche si può sempre avanzare la obiezione che non sono trasferibili da un paese all’altro del mondo, le idee, per fortuna, non hanno mai avuto bisogno di passaporti; nel peggiore dei casi, l’unica cosa che serve è una buona traduzione.
Diamo poi uno sguardo al panorama del pensiero sociale e politico di ispirazione cattolica (anche se lo sguardo può estendersi anche ad altre correnti di pensiero, cristiane o in generale religiose; senza escludere quelle laiche). Mi riferisco alla identificazione della “persona” come centro dell’interesse, come fonte di risorse e di energia. Persona: una parola che ha significati molto pregnanti e forti. In primo luogo perché non si espone ai morsi della critica liberale. Chi mai potrebbe sostenere che usare il termine “persona”, per parlare dei diritti, della libertà, del valore degli uomini e delle donne sia riduttivo rispetto all’uso del termine “individuo”? Ma con la parola “persona” senza perdere nulla della irriducibile singolarità di ciascuno, senza minimamente intaccare il riferimento essenziale all’individuo, ci si apre a considerare le relazioni dell’individuo e fra gli individui. Tanto che si può dire che con “persona” si intende l’individuo in relazione con altri. Relazioni che, a loro volta, definiscono ambiti, un insieme di persone, di individui che sono collegati fra loro. Avrei potuto dire “legati”; ma dire invece “collegati” indica già un modo di intendere le relazioni; tanto che si potrebbe abbozzare una legge generale per trasformare sempre più le relazioni da forme di “legame” di “legamento” a forme di “collegamento”, per ricondurle, cioè dall’ambito della necessità, all’ambito della scelta, del controllo da parte delle persone; in una parola della “padronanza”. Le relazioni, cioè, definiscono “comunità”. Non è proprio un caso che alla “comunità” prestano attenzione le correnti di pensiero che valorizzano, con l’individuo, le sue relazioni; si tratti di correnti liberali (vedi in USA) o cattoliche….
C’è, poi, la tradizione e la cultura più specificamente socialista, propria del movimento operaio. Questa tradizione, questa cultura e le esperienze che ne sono scaturite hanno messo al centro della attenzione, dello studio, dell’intervento, i rapporti sociali. La conoscenza, lo studio delle relazioni fra gli individui, la valutazione dei meccanismi gerarchici e di dominio, la critica di tali meccanismi, la ricerca di modi, forme, istituti, innovazioni culturali per modificarli e renderli permeabili ai principi della libertà, della eguaglianza, della dignità che la sinistra di ispirazione socialista e il movimento operaio hanno ammassato nel corso dei decenni in questo campo, costituisce un patrimonio straordinario che, una volta disincagliato dai vincoli ideologici, una volta che lo si liberi dallo schematismo strutturalistico e sistemico e si eliminino le conseguenti rigidità, può offrire un ricco materiale e un grande impulso alla innovazione della sinistra.
C’è da dire qualcosa, infine, sulle componenti e le correnti della sinistra che non hanno una ispirazione e una ascendenza di tipo operaio e socialistico. A guardar bene – mi limito alla nostra epoca e all’Italia – sono più di trenta anni (dagli anni sessanta) che nella sinistra agiscono raggruppamenti, riviste, movimenti che hanno altre culture, altre logiche, rispetto a quelle del movimento operaio e del socialismo. Una parte grande dei giovani, da trent’anni in qua, si sono affacciati alla partecipazione e alla lotta politica, hanno fatto le loro – come si dice – prime esperienze attraverso quei canali e quelle occasioni, ne hanno condiviso valori e culture. E anche se, poi, sono entrati nell’alveo e spesso anche nelle organizzazioni politiche, sindacali, dell’associazionismo della sinistra tradizionale, lo hanno fatto senza dimenticare e rifiutare quelle prime esperienze. Anche perché, parallelamente, quelle stesse organizzazioni e i partiti in modo particolare, sono andati attenuando la loro rigidità ideologica, si sono progressivamente aperti, hanno acquisito caratteri sempre più pluralistici. Di queste esperienze, quella che si è di più strutturata politicamente è quella ecologista, che ha confini più ampi e diramazioni più ricche e varie di quelli che si identificano oggi nei verdi. Ma ce ne sono molte altre, a cominciare da quella femminista, di gran lunga la più importante per profondità e conseguenze. Tutte queste esperienze hanno un denominatore comune: fanno riferimento agli individui, alle persone e, soprattutto, concentrano l’attenzione sulle relazioni che instaurano fra di loro, uscendo dagli schemi strutturali e sistemici del socialismo, della sua teoria, della sua pratica, dei suoi stereotipi, delle sue priorità.
### Dunque, individui in relazione, relazioni fra gli individui; questo possiamo considerare l’ambito di interesse strategico, di studio, di intervento, di innovazione della sinistra. Le relazioni riguardano tutti gli aspetti della vita delle persone: il lavoro, la sicurezza, il tempo libero, l’organizzazione del tempo, la fruizione di servizi, la gestione del “privato”. Sotto questo aspetto, la sinistra dovrà pensare e agire in modo tale che le relazioni evolvano nel senso della padronanza da parte di ciascuna persona, cioè che ciascuna persona eserciti il più alto controllo sulle relazioni che lo coinvolgono e sulle conseguenze che ne scaturiscono.
Le relazioni sono una risorsa che varia; possono esaurirsi, ossificarsi, burocratizzarsi; la quantità di tempo che le persone trascorrono, di atti che compiono in modo meccanico, in condizioni di solitudine può accrescersi fino a divenire prevalente. La sinistra dovrà proporsi di accrescere le relazioni, di sottrarle all’isterilimento e alla ripetitività, alla passività; di aumentare le occasioni nelle quali si instaurano relazioni, in tutte le forme, a cominciare da quella legata allo sviluppo dell’associazione.
La ricchezza e la varietà delle relazioni, il tasso di autonomia, di padronanza, di volontariato che si riscontra nelle relazioni costituisce la risorsa più importante alla quale la sinistra deve prestare attenzione, che deve coltivare. Si aprono qui nuovi orizzonti della politica; la politica è funzione di questa risorsa relazionale, e, contemporaneamente, ha l’obiettivo di accrescerla. Le relazioni sono una risorsa che si può governare, sulla quale si può estendere la padronanza.
L’attenzione agli individui, alla specificità della loro condizione, della loro esperienza, alle relazioni che instaurano, alla volontà che esprimono e alla capacità che dimostrano di assumerne la responsabilità, per governarle ed esserne il più possibile padrone, può offrire un eccellente punto di orientamento per ripensare le politiche sociali e lo Stato sociale. Mi limito a qualche suggestione; per sottolineare quanto, anche qui ci sia da innovare, nei fatti e anche nelle idee.
Per affrontare il tema dello Stato sociale in tutte le implicazioni, oltre a connetterlo con la spesa pubblica nel suo insieme, dobbiamo riferirlo al lavoro, alla sua organizzazione, alla sua distribuzione. A questo fine, si dovranno affrontare questioni “di frontiera”, e tuttavia cruciali. Negli anni, nei decenni futuri, con ogni probabilità le persone, o un numero crescente di persone, comporranno il loro reddito complessivo attraverso più redditi parziali provenienti da attività diverse. Il lavoro non sarà nell’esperienza di una persona sempre uguale a se stesso; cambierà nella vita, più di una volta. E i lavori diversi, sia che li si svolga contemporaneamente, sia che si passi nel tempo dall’uno all’altro, avranno, con ogni probabilità anche caratteri e segni sociali diversi; potranno essere ad esempio lavori dipendenti e lavori autonomi. Anche per questi motivi, le politiche volte a creare nuove occasioni di lavoro non possono più ispirarsi a criteri uniformi, rigidi.
I parametri classici di classificazione e identificazione sociale diventeranno sempre meno significativi; e non solo in virtù di influenze “culturali”, ma in conseguenza di dati che, secondo categorie tradizionali, si possono definire “strutturali”. Per questo motivo, penso che noi dobbiamo proporci di dare evidenza e rappresentanza a tutte le forme di lavoro nuovo, di lavoro autonomo, di lavoro misto, nel quale cioè non è possibile tracciare con nettezza il confine fra lavoro autonomo e lavoro dipendente, fra professionalità e imprenditorialità.
La sinistra ha elaborato e definito il concetto di sicurezza in una fase in cui la società era molto più standardizzata e statica di quanto sia ora; quando i dati oggettivi e la percezione soggettiva della sicurezza erano del tutto diversi da quelli che si incontrano e circolano oggi. Il concetto di sicurezza, la fornitura di servizi finalizzati alla sicurezza devono diventare elastici, devono differenziarsi per adattarsi alle domande e alle aspettative le più diverse, e in continuo mutamento. La sicurezza deve predisporsi per intervenire soprattutto nei passaggi, nei momenti critici. Ad esempio, la questione di cui si parla di un eventuale “salario minimo” di cittadinanza. Stiamo riformando le pensioni attraverso il passaggio dal sistema a ripartizione al sistema contributivo. Un “salario minimo” come diritto universale non appartiene invece ad uno Stato sociale che si organizza su un principio di “ripartizione” legato addirittura non più allo stato di lavoratore ma allo stato di cittadino? Mi sembra che si riassuma da una parte un criterio che viene abbandonato dall’altra. Le scelte che non possono essere fatte in maniera confusa e contraddittoria: dobbiamo intervenire, approfondire.
C’è un modo di concepire e di organizzare la sicurezza sociale che unifica lavoro dipendente e lavoro autonomo, giovane e anziano, uomo e donna; e c’è invece un altro modo – sicuramente oggi prevalente – che mantiene divisi quegli stessi interessi, che non possono, allora, far altro che contrapporsi in modo corporativo. Si può dire: io Stato ti garantisco la sicurezza, ovvero io Stato ti aiuto a costruirtela, o la garantisco ad alcuni, o a tutti fino a questo punto e poi li aiuto a proseguire per consolidarla e arricchirla. Si può lavorare, agire, utilizzare le risorse pubbliche in modo che si riduca sempre di più l’area che ha bisogno di una sicurezza garantita e concessa dall’esterno e invece si accresca sempre di più l’area di coloro che sono in condizioni di costruirsi, sulla base di determinati aiuti, di determinate certezze, la loro sicurezza. Così la responsabilità, l’iniziativa, la padronanza possono costituire la base di una convergenza e di unificazione del lavoratore dipendente, dell’imprenditore, del lavoratore autonomo, del lavoratore stabile, del lavoratore instabile, del lavoro strutturato e del lavoro mutevole.
Si giunge anche per questa via a uno dei temi che abbiamo collocato al centro della nostra attenzione, sul quale dobbiamo lavorare con il massimo impegno: al tema della destatalizzazione. Formulo solo qualche domanda. Possiamo cominciare a pensare di ridurre e bonificare la burocrazia attraverso il trasferimento alla società – e alla società organizzata, per esempio alle professioni – di alcune funzioni fin qui attribuite in maniera indiscutibile, dogmatica allo Stato? Se affidiamo la tutela del cittadino utente, la qualità e la economicità dell’offerta di servizi alla liberalizzazione, a una pluralità di soggetti, come deve attuarsi il principio della universalità del servizio, fin qui garantito dalla presenza monopolistica o assolutamente prevalente dello Stato? quale può dunque essere e quale saranno la consistenza, la organizzazione, i costi dei servizi? La domanda investe, in Italia, moltissime attività e moltissimi aspetti della vita quotidiana dei cittadini: dalla televisione, alle poste, ai trasporti[3].
La stessa riflessione si può applicare anche alla scuola, che pure è un ambito nel quale devono essere considerati aspetti “di qualità” sicuramente molto delicati e impegnativi. Ma aspetti specifici “di qualità” si pongono in tutti i servizi, e in tutti i casi nei quali devono essere garantiti determinati standard, fosse anche soltanto quello della universalità. La domanda di istruzione crescerà enormemente, noi stessi ci proponiamo di farla crescere nel modo più rapido e intenso; per una gran quantità di motivi che vanno dalla affermazione di un diritto fondamentale, alle prospettive dello sviluppo economico, alla capacità di competere sui mercati mondiali, al livello di civilizzazione. E’ una domanda che crescerà, dovrà crescere, vogliamo che cresca in termini quantitativi e qualitativi: l’offerta dovrà dunque non solo aumentare, ma affinarsi, differenziarsi, articolarsi, incorporare una grande capacità di innovazione, di aggiornamento dei servizi che è in grado di fornire. Non credo che si possa far fronte ad una crescita quantitativa e qualitativa della domanda e della offerta di servizi per l’istruzione quale quella che ipotizziamo e dobbiamo – comunque – promuovere, senza creare le condizioni per cui si mobilitino, in questo settore altre risorse oltre quelle dello Stato. E non penso solo a quelle della chiesa o degli industriali. Penso a un modo di guardare a questa questione, per cui attivare una impresa che fornisce servizi per l’istruzione diventi normale come attivare una qualunque altra impresa. Dovranno esserci, evidentemente regole, procedure, garanzie specifiche. Né penso ad una idiota “privatizzazione” della istruzione. Penso invece che – come in altri servizi – anche per i servizi di istruzione si debba arrivare a una distinzione: la fornitura hard la dà se non esclusivamente, prevalentemente lo Stato che garantisce comunque il livello e la omogeneità del servizio; l’offerta soft da articolare secondo esigenze che cambiano, crescono, che non sono strutturabili in modo permanente e standardizzato, è affidata ad una pluralità di soggetti. Sono domande e questioni che ho non a caso definito “di frontiera”. Ma se vogliamo davvero impegnarci per innovare le politiche sociali, affrontarle diventa a mio avviso obbligatorio.
Quando diciamo lavoro non parliamo soltanto di riforme delle politiche sociali riferite alla spesa pubblica, o alla sicurezza garantita dalla mano pubblica o gestita e garantita dallo Stato. Dobbiamo pensare anche alle politiche concrete che fa il sindacato. Quali sono i parametri contrattuali, cosa si contratta? Oggi l’unità contrattuale fondamentale è ancora, in termini culturali prima ancora che quantitativi il salario annuo, il salario triennale, il salario di una vita. Questo è il fondamento della contrattazione vera, intera, della contrattazione “regina”. Poi si contratta anche su ambiti più delimitati; ma quando ciò avviene si ha la percezione di perdere forza, “potere”, di tornare indietro o di dar vita ad una contrattazione parziale che si spera diventi in fretta completa. Ma questo ha sempre meno riscontro nella realtà dei lavori, delle relazioni e delle aspettative che li accompagnano e li caratterizzano. Il pilastro essenziale, strategico, di decenni di politica contrattuale e di cultura e di azione sindacale, è stato la stabilità, la continuità del posto di lavoro; su questo si è costruito il sindacato, il potere contrattuale, gli istituti e le forme della contrattazione; oltre che i binari sui quali sono avanzate le politiche della sicurezza sociale. Oggi tutto questo c’è sempre meno; e, soprattutto, viene sempre meno riconosciuto come un valore. Quale o quali devono essere quindi le nuove unità di contrattazione? Non dico che si debba passare dal contrattare il salario del triennio a contrattare quello dell’ora; ma siamo proprio convinti che non si possano identificare unità di lavoro da contrattare che non sia quella del salario “della vita”? Vogliamo promuovere un confronto con persone che hanno esperienza sindacale e su di essa riflettono; con posizioni anche diverse dalle nostre. L’importante è che lavoriamo con tutti quelli che vedono la necessità della innovazione, che capiscono quanto sia importante, vitale la innovazione.
### La attenzione al rinnovamento della politica, delle organizzazioni e delle istituzioni della politica; viene spesso criticata in nome della necessità – che non si può evidentemente negare – di prestare attenzione ai problemi “concreti”, alle questioni – appunto – sociali. Questa critica si fonda sull’assunto che le esercitazioni innovatrici possono sbizzarrirsi nell’ambito aleatorio e opinabile della politica; ma quando si arriva al “sociale”, allora si deve tornare ai duri e vincolanti dati della realtà, alle ferree regole dettate dalla materialità. Sbagliato; l’innovazione non è un lusso o una divagazione che si può concedere alla azione politica, mentre la azione sociale è obbligata alla continuità, alla iterazione. L’innovazione è necessaria sull’uno e sull’altro terreno; e, anzi, l’una è condizione e sostegno dell’altra.
C’è, a sinistra, una cultura solidissima, radicata in modo profondo, quasi un habitus; ma, secondo me, ormai definitivamente obsoleta. Questa cultura considera e configura le alleanze attraverso una lettura della società statica, a blocchi. Si dice, ad esempio, che il centrosinistra non deve essere considerato soltanto un’alleanza politica ma anche un’alleanza sociale; che le alleanze politiche che dobbiamo promuovere devono corrispondere a una convergenza sociale fra l’impresa, il lavoro, l’intelligenza. Io credo che questo proposito, questa intenzione, siano giusti. Ma penso anche quell’obiettivo non viene raggiunto se ci si muove con una idea della società articolata in grandi insediamenti sociali stabili: la classe operaia, gli imprenditori, gli intellettuali. La politica delle alleanze non funziona più come unificazione di grandi eserciti strutturati o strutturabili. Questa è una visione statico-corporativa. L’alleanza fra impresa, lavoro e intelligenza è assolutamente necessaria; ma la si attiva sulla base delle scelte, delle linee programmatiche, dei criteri che vengono assunti per valorizzare una risorsa piuttosto di un’altra; delle procedure, delle strade che vengono individuate, delle volontà e delle risorse che vengono stimolate per raggiungere questo o quell’obiettivo.
[1] Le firme erano in ordine alfabetico e quella di Augusto Barbera apriva l’elenco
[2] Mentre riguardo questi testi prima di consegnarli alla tipografia mi viene un pensiero che sarebbe stato impossibile avere nel 1997 (ventiquattro anni fa!). Assumere l’individuo come riferimento essenziale, nei termini qui esposti è anche l’antidoto più efficace contro ogni forma di populismo, di destra o di sinistra che sia. Il populismo, infatti, annega e nega l’individuo entro il concetto di “popolo” che comporta la più radicale, e ampia negazione dell’individuo, una negazione generale, direi totale perciò potenzialmente totalitaria (come del resto il concetto di “massa” o di “gente” – c’è una letteratura sterminata in proposito). La trovatina “elettronica” dei cinquestelle di usare il web e la democrazia diretta spacciata come un modo per valorizzare l’individuo, solo che ci si rifletta un momento mostra tutta la sua ingannevole furbizia. Quell’”uno vale uno” non è l’esaltazione ma l’annullamento dell’individuo; vuol dire che uno vale l’altro, cioè si tratta solo di un numero: la base del totalitarismo, appunto e del disprezzo per la concretezza per le persone in carne ed ossa nella loro condizione umana, sociale, economica, culturale, di genere ecc. ecc Lo spirito è quello della famosa aria del Rigoletto in cui il Dica di Mantova proclama “questa o quella per me pari sono”. Eccola l’eguaglianza del populismo! Sì, il vero efficace antidoto anche al populismo è l’individuo.
[3] C’è qui il riflesso del mio impegno istituzionale in quel periodo. Ero presidente della VIII Commissione del Senato, alla quale faceva capo tutta la produzione legislativa riguardante i servizi a rete, materiali e immateriali, dalle ferrovie alla telefonia mobile, alla tv.
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