Il 28 aprile la Fondazione Socialismo e la rivista Mondoperaio, in collaborazione con l’Istituto Sturzo hanno svolto un convegno dedicato al tema dell’impegno dei cattolici nella politica italiana. Il titolo era riferito ad un luogo dell’Appenino toscano dove risiede tuttora un convento di frati in cui, nell’estate del 1943, un gruppo di intellettuali e protagonisti della politica, di matrice cattolica, si incontrarono per discutere dei programmi e degli obiettivi di una nuova politica e dell’indispensabile apporto che proprio essi avrebbero dovuto garantire alla sua positiva costruzione.
Pubblichiamo gli interventi di Giuliano Amato e Gennaro Acquaviva

D’accordo con Gennaro Acquaviva ho voluto intitolare questo mio intervento alla attualità del disegno costituzionale, figlio di Camaldoli. Il titolo ha un significato di non poco rilievo in un momento nel quale i cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni – mi riferisco a quell’io, quel ciascuno da solo, a quelle identità furiose di cui ha scritto recentemente un bravo nostro collega, Fulvio Cortese – inducono molti a pensare che il disegno costituzionale sia saltato, che non valga più davanti ad una realtà come questa, che non offra la cornice in cui collocarla. È certo è vero che, rispetto alla Costituzione, qualcosa è cambiato dai primi anni della sua vigenza, quando i diritti e le libertà che si sono espanse erano state quelle espressamente previste dalla stessa Costituzione, via via liberate dai vincoli repressivi di cui ancora soffrivano a causa della legislazione prerepubblicana. Fu così che avemmo la libertà personale affidata ai giudici e non più ai prefetti, avemmo la libertà delle comunicazioni, la libertà di stampa, l’abolizione delle censure, ed avemmo l’affermazione, sia pure a pezzi e a bocconi, dei diritti che si realizzano non in quanto veniamo lasciati liberi di fare quel che vogliamo ma in quanto riceviamo quello che ci spetta: i diritti sociali per primi, i diritti alla formazione e alla scuola, siamo arrivati poi al diritto alla salute che si è espresso nell’universalità del servizio sanitario nazionale.

Ecco, tutto questo è sembrato l’attuazione del disegno costituzionale e tale indiscutibilmente è stato.

Che cosa ha preso a succedere dopo? È arrivata quella che chiamammo la individualizzazione delle vite, dovuta a mille ragioni: la fine della grande famiglia contadina, il piccolo nucleo familiare nella vita urbana, il forte ridimensionamento della grande impresa tayloristica che aveva migliaia e migliaia di addetti e il sopravvento di piccole unità ad alto valore aggiunto e poco personale, il passaggio dalle mansioni in tuta blu alle mansioni in camice bianco. Fenomeno che accade in tutto il mondo e che porta – questo è il punto – a rendere meno comunitarie le vite; porta a vite nel corso delle quali ciascuno dei componenti la piccola famiglia incontra gli altri solo quando si alza la mattina e quando va a letto la sera, mentre gli estranei li vede sempre più di rado, qualche volta il sabato sera.

Le tecnologie che cambiano, cambiano anche il nostro modo di comunicare e ci rendono soli anche quando comunichiamo con gli altri, perché lo facciamo attraverso questi attrezzi e non attraverso il colloquio. Le tecnologie creano anche delle potenzialità che un tempo non avevamo, ci tengono vivi quando cento anni fa saremmo già defunti, ci consentono di respirare non attraverso i nostri polmoni ma attraverso macchine che pompano l’aria per noi. Abbiamo visto in questi giorni un bambino in attesa di trapianto cardiaco – quando ero bambino io “trapianto cardiaco” era una locuzione che non esisteva – che nel frattempo cammina in ospedale portando sopra rotelle una macchina che è il suo cuore, che pulsa fuori di lui ma che alimenta la sua circolazione sanguigna.

Tutto questo messo insieme, e la faccio molto breve, ha cambiato completamente le aspettative, che sono diventate sempre più aspettative riguardanti la vita individuale di ciascuno, nel campo dei piccoli appagamenti materiali, come in quello delle grandi questioni. A me non basta poter morire, secondo molti il più tardi possibile; no io voglio morire quando io decido di morire. Nasce tutta una nuova tematica che poi fa capo al suicidio assistito, all’eutanasia. Ascoltavo ieri sera una conversazione che c’era in un podcast del New York Times tra una psichiatra americana e uno psichiatra olandese sul fatto che il Canada si accinge ad ammettere il suicidio assistito penalmente immune del malato di mente, prassi che esiste già in Olanda. E la prima domanda è: ma il consenso consapevole a qual tipo di disturbo mentale può essere collegato e a qual tipo non lo dai? Ma mi fermo qui.

Posso decidere di far nascere figli quando e come voglio, con le tecnologie che ormai affiancano il processo naturale, ovvero avvalendomi di tale processo, o di parte di esso, ma non necessariamente entro la coppia di cui io faccio parte. Posso sposare chi credo, posso cambiare identità sessuale, posso e devo decidere io se sottopormi ai trattamenti sanitari che i medici propongono per me. Tutte cose che hanno quasi sempre un fondamento, ma: sono sempre miei diritti?

Ecco, tra le evoluzioni che sono intervenute, è intervenuta anche l’evoluzione del diritto, di cui noi stessi italiani siamo partecipi, che ha portato alla trasformazione di contenitori precedenti. La privacy era nata come diritto a non rendere noto a terzi ciò che intercorre per nostra volontà tra noi due. Questa era la privacy. Poi negli anni Sessanta, parte negli Stati Uniti questa storia, per privacy si comincia ad intendere il mio diritto a non avere interferenze di terzi nelle mie decisioni private. E noi europei, nella Convenzione dei nostri Diritti umani del 1950, troviamo sancito il diritto all’autonomia della nostra vita privata davanti ad interferenze pubbliche non giustificate. Su questa base, si prende ad andare davanti alle corti, sostenendo che è ingiustificata qualunque interferenza pubblica nei modi, e quindi nei desideri a cui si vuole dar corso nella propria vita privata.

Ecco, qui vi potrà colpire che è la cultura laica, in genere, quella che si fa poi promotrice dell’allargamento senza confini dei diritti e che fa quindi di contenitori come l’art. 8 (o, negli Stati Uniti, il XIV emendamento) dei pozzi di San Patrizio dai quali si estraggono novità, le più diverse.

Nella nostra Costituzione, fin dall’origine, c’è l’articolo 2 che riconosce i diritti inviolabili della persona. A quel tempo la cultura laica si affrettò a dire: si tratta solo dei diritti espressamente enunciati dalla stessa Costituzione negli articoli successivi, nel timore che la cultura cattolica estraesse dall’articolo 2 i diritti “naturali” che erano propri del suo bagaglio culturale e che potevano non essere condivisi.

Certo è che si è formato questo fiume, che anch’esso, come tutti i fiumi, ha dell’acqua buona e dell’acqua cattiva, e che a un certo punto si è posto il problema: ma ha da esserci un limite? Ma è possibile che esistano solo individui con i loro desideri? Ma quand’è che ci si incontra o che ci si scontra con visioni comuni, con il bene comune, di cui parlava prima Beppe De Rita, con una idea di società nei confronti della quale certi desideri trasformati in diritti da soddisfare su un piano puramente individuale possono portare dei guasti, dei danni? E la Costituzione è ormai tagliata fuori, non ha nulla che ancora ci guidi?

È una domanda che è venuta crescendo e che è poi alla base del famoso dialogo Ratzinger-Habermas del 2004, dedicato esattamente a questo tema: qui stiamo scivolando verso società nelle quali l’etica diventa un giocattolo dei singoli, ciascun singolo con la sua etica, perché ogni etica esterna diventa una interferenza nella mia vita privata, nella mia autodeterminazione. La società scompare a quel punto e quindi è interesse di tutti, per l’esistenza stessa della società, cercare, trovare una piattaforma comune.

Tornare a cercare e mettere insieme le culture. Di qui la ragione e la fede parimenti coinvolte in questa ricerca. E di qui l’idea che Habermas sta tuttora sviluppando nella sua storia della filosofia, secondo la quale nella società post-secolare c’è un ampio margine di compatibilità tra fede e ragione, giacché la ragione ben può riconoscersi in valori, in stilemi, anche in utopie che trovano la loro origine nelle religioni. Questo – aggiungo io – è un giustissimo superamento della secolarizzazione del XX secolo, che aveva bandito dal dibattito pubblico tutto ciò che provenisse dalla religione, quasi che non farlo violasse la separazione tra temporale e spirituale. Fu un passo troppo lungo della secolarizzazione, che è stato pagato nei decenni.

Ebbene, se qui siamo e abbiamo un ampio riconoscimento di questa necessità vitale delle società del nostro tempo, non possiamo non accorgerci che questo era il disegno della Costituzione della Repubblica, così come lo troviamo all’origine, prima ancora che nel codice di Camaldoli nel personalismo degli anni ’30, di cui il codice di Camaldoli riflette le fondamentali prospettive nel disegnare la relazione umana, lo sviluppo della personalità di ciascuno attraverso il rapporto con gli altri e non attraverso la chiusura dei propri desideri trasformati in diritti a prescindere dagli altri. Voglio precisare che non sto intonando qui un peana acritico di tutto ciò che i portatori di quella cultura portarono nella Costituzione. Erano uomini del loro tempo, con il maschilismo ed altri pregiudizi del loro tempo.

Nel codice di Camaldoli era scritto che è naturale che il capo famiglia sia lui, perché l’unità della famiglia questo richiede. L’art. 29 della Costituzione ne risentirà e affermerà l’eguaglianza dei coniugi “nei limiti” dell’unità familiare. Così pure l’eguaglianza nei diritti dei figli naturali e dei figli illegittimi verrà dopo, ma la Costituzione avrebbe parlato di loro diritti “compatibili” con quelli della famiglia legittima. Tutto questo è vero, ma è non meno vero, che l’art.2 è limpido e attualissimo, laddove aggancia, in un unico contesto lessicale, il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la sua personalità e la richiesta dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale, economica e politica. Leggete Böckenförde e troverete in lui l’idea che nella coscienza di ciascuno devono esservi tanto la consapevolezza di sé e dei propri diritti, quanto quella dei doveri che li limitano. Böckenförde lo scrive esattamente così: la libertà che si regola dall’interno costituisce la sostanza morale dei singoli.

Eccolo qua, i doveri, e quando per la prima volta ne scrissi constatai che lo stesso Stefano Rodotà aveva riconosciuto come i doveri non siano qualcosa di esterno che sopraggiunge, di cui qualcuno mi deve ricordare l’esistenza, ma stanno dentro, fanno parte, devono far parte, della coscienza delle libertà. E quindi le colonne d’Ercole continuano a segnare i confini di ciò che l’individuo può pretendere per sé ignorando gli altri. Questo era il fondamento di Camaldoli, questa è la lettura dell’articolo 2 della Costituzione, questo è ciò di cui oggi abbiamo bisogno per recuperare il senso di collettività. Con una fondamentale integrazione, rispetto ai termini del problema, così come ci si presentava decenni fa: non più soltanto piattaforma comune fra credenti e non credenti e quindi ragionevole accomodamento fra le rispettive posizioni, ma anche piattaforma comune e ragionevole accomodamento fra le religioni diverse, che oggi convivono sempre più fittamente anche in società come la nostra.

E qui, in conclusione, mi sia permesso rimandare a quel documento di Abu Dhabi, che Papa Francesco ha firmato con il grande imam di Al Azhar, el Tayyeb, nel 2019 e che guarda con fiducia a un possibile futuro di valori condivisi.