Rispetto alle culture politiche del Novecento – secolo lungo e breve, caratterizzato dai totalitarismi, eppure a suo modo “socialdemocratico” – e in particolare rispetto al “trentennio d’oro” della socialdemocrazia nel secondo dopoguerra, fenomeni possenti, quali la globalizzazione e l’esplosione delle nuove tecnologie hanno indotto le principali forze della sinistra europea a confrontarsi, anche in maniera drammatica, intorno al dilemma: innovazione o conservazione? In Italia, poi, ciò è avvenuto in modo del tutto peculiare, in quanto il grosso della sinistra non è mai decisamente e compiutamente approdato alla socialdemocrazia. Per cui da un lato si è avuta una giustapposizione di vecchie tendenze e della spinta al “nuovo”, dall’altro ogni volta “il nuovo” sembra voler travolgere tutto. In entrambi i casi fa difetto un vero lavoro di elaborazione.
La tradizione non è in realtà un monolite e anzi, come ci ricorda Salvatore Veca rifacendosi alle considerazioni di Giulio Preti sul rapporto cultura-filosofia, essa è attraversata e caratterizzata da mille linee discordanti, rispetto alle quali ci si può insinuare in maniera critica. Vi sono poi, nell’ambito delle “tradizioni”, incessanti movimenti che conducono al centro ciò che era marginale e sospingono ai margini ciò che era centrale. E più in generale vi è un continuo gioco “figura-sfondo”, per cui di volta in volta saltano in primo piano elementi che prima si ponevano sullo sfondo, e viceversa. Si pensi, a mo’ di esempio, ai continui rimandi fra democrazia, liberalismo e socialismo che contraddistinguono la storia delle socialdemocrazie e i filoni liberalsocialisti e socialisti liberali.
Senza una “trama” del genere, le innovazioni rischiano di somigliare ai flash che abbagliano e non illuminano abbastanza o al parlare sconnesso degli ubriachi. Ѐ stato importante sposare con slancio e determinazione la causa dell’innovazione. Forse però è giunto il tempo di affiancare al discorso sull’innovazione quello sul rapporto innovazione-tradizione.