L’imminenza di una nuova campagna referendaria per l’abolizione della caccia è un ottimo test per il rinnovato (ma superficiale) interesse per l’ecosocialismo. Le mie riflessioni su di esso devono interessare anche i non socialisti.
Ismo è un suffisso che in politica trasforma una parola in un paradigma di indagine o di azione.
Così il concetto di popolo nel populismo diventa fondamento per una politica indistinta, il cui unico discrimine è quello del non-popolo (fantomatiche élites, stranieri, sabotatori e via cantando). Chi si innamora della parola comunità, e diventa comunitarista, crede che il modo migliore e/o più giusto di far funzionare le cose sia un certo grado di indipendenza delle comunità, ovvero dei gruppi umani intesi per ciò che hanno in comune (soprattutto la vita in un territorio relativamente circoscritto).
Noi che ci definiamo socialisti lo facciamo perché crediamo nella socialità, ovvero nell’associazione delle differenze: una politica consapevole dell’interdipendenza tra individui senza paradigmi oppressivi, che trascenda gli egoismi non solo individuali ma anche comunitari e persino popolari.
Ecosocialismo è un grado di consapevolezza in più, perché riconosce un’interdipendenza che non si ferma agli esseri umani e comprende anche l’ambiente.
Ma non è ambientalismo. L’ambientalismo è l’ismo che sottomette tutto, società, individuo, comunità, popolo, non-popolo, qualsiasi entità o espressione umana all’ambiente. Indipendentemente dall’idea che si ha di ambiente (ce ne sono di molto serie e ce ne sono di neopagane) l’ambientalismo è sempre ideologico e mai metodologico (come invece l’ecologia). La stessa parola “ambiente” è ambigua e non piace molto agli scienziati. Per quanto gli ambientalisti ribadiscano infatti l’appartenenza dell’Umanità all’ambiente, la loro missione (in contraddizione ai fondamenti scientifici dell’ecologia) è quella di rendere l’Umanità il più neutrale possibile. Neutralizzarla.
Antropocentrismo di ritorno: per combattere certi titanismi, che pretenderebbero un assurda e divina supremazia dell’Umano, gli ambientalisti si arrogano di dire che l’Umano non va bene. Il suo impatto cosciente sarebbe un’aberrazione della Natura (altra parola ambigua e paganizzata). Gli ambientalisti continuano di fatto con l’assurda considerazione dell’Umano come alieno rispetto alla Natura, rimettendo l’Umano alla guida di essa; anche se alla maniera di chi voleva curare la peste flagellandosi. Tra consumisti incoscienti e ambientalisti col cilicio l’Umanità sembra oggi davvero fottuta.
E qui si potrebbero evocare poderose iperboli distopiche, ma basti accennare più modestamente a tutte le storie che ben conosciamo (ILVA, nucleare, ecc).
La differenza tra ecosocialismo e ambientalismo non sta semplicemente in una maggiore, seppur vaga e peregrina, pragmaticità (riguardo il lavoro per esempio). Così come socialismo liberale non è semplicemente il calcolo di quanta inefficienza economica ci si possa permettere per far star bene le persone, così l’ecosocialismo non è semplicemente il calcolo di quanto possiamo inquinare per far lavorare le persone. Tali ragionamenti sottomettono implicitamente l’azione socialista al liberismo e all’ambientalismo, perché la propongono come approssimazione di una presunta necessità.
L’ecosocialismo non ha alcuna intenzione di neutralizzare l’esperienza umana, bensì di esaltarla. Questa esaltazione può prendere indistintamente la via di un ottimismo positivista come di un pessimismo leopardiano, ma al centro c’è lo sviluppo di una coscienza all’altezza delle sfide.
La coscienza ambientalista è una falsa coscienza, come quella di classe, un’ideologia che obnubila la coscienza umana, ovvero la coscienza della persona che riesce a vedersi dall’esterno, anche con implicazioni sociali ed ecologiche ma mai dall’interno di una costruzione concettuale come la classe dei marxisti o l’ambiente degli ambientalisti.
Venendo alla caccia.
Per onestà intellettuale metto davanti a tutto l’aspetto più difficile da difendere della caccia, ovvero la caccia sportiva. Mi si permetta però di prenderla larga, perché penso che una volta ragionato sul fenomeno complessivo questa possa risultare invece meno importante (come del resto per la maggior parte delle questioni emotive).
Le vite umane e animali si equivalgono?
Per l’animalista la risposta è sì, per l’ambientalista non necessariamente ma tendenzialmente sì.
Per il socialismo non ci deve essere equivoco: c’è una gerarchia degli esseri viventi che ha l’essere umano al vertice o al centro. Non per qualche dettame divino ma, banalmente, perché sono gli uomini a potersi associare.
L’ecosocialismo fa poi una considerazione ulteriore. Ci sono animali che partecipano alla socialità (bestie da soma, cani poliziotto, animali domestici) e, volendo, anche animali che hanno un certo valore culturale (le mucche in India, l’aquila calva negli States, eccetera). A questi animali si riconosce un trattamento diverso, ma non a prescindere: sempre relativamente al loro ruolo sociale, che può cambiare come cambiano le società uamane, le quali, come unico valore assoluto, hanno la vita umana. Ovviamente tutto ciò genera o è generato anche da dinamiche economiche che rendono ancora più solido il trattamento di una specie rispetto ad altre (come nel caso dei bovini produttivi e delle nutrie nocive).
Tutto ciò, gli animalisti e molti ambientalisti lo classificano come specismo. Un termine che vorrebbe evocare nelle nostre coscienze il razzismo, squalificando le discriminazioni che facciamo tra specie animali in base a tornaconto economico, cultura, eccetera.
Quando gli odiosi allevamenti intensivi vengono definiti ancor più odiosamente lager, la strategia della comunicazione animalista è chiara. Emerge qui il capovolgimento dissennato.
Perché non è che l’industria alimentare tratta bovini e pollame come i nazisti trattavano gli ebrei, il punto è che esseri umani trattavano (e purtroppo ancora trattano) altri esseri umani come si trattano le bestie, questo è lo scandalo.
Ovviamente la gerarchizzazione degli esseri viventi non deve prevedere la crudeltà gratuita e neanche certe crudeltà pur motivate. Certi distinguo sono un esercizio tutt’altro che di difficile teorizzazione, per quanto di difficile implementazione.
Di base molte crudeltà verso gli animali sono ad esempio igienicamente nocive per noi, questa è già un base a cui poi si aggiunge una maturità etica: la previsione di una gestione, permettetemi, umana e dunque non animalesca.
Finché però parliamo di allevamenti industriali, pur essendo notoriamente più mostruosi e nocivi della caccia (un miliardo e mezzo di bovini allevati fanno infinitamente più danno dell’estinzione del dodo) e della negletta macellazione domestica, è tutto più comodo…
Il bambino di città tipico, abituato al merluzzo demerluzzizzato in forma di parallelepipedo con panatura omogenea che lo “protegge” dalle ultime evidenze di vita del suo pasto, ha come trauma fondamentale la nonna di campagna che tira il collo alla sua gallina preferita o il nonno che ferma l’auto per sparare a un coniglio paralizzato dai fari.
L’azione animalista socialmente meno apprezzata è paradossalmente la più sana: la documentazione fotografica delle crudeltà verso gli animali allevati. Spesso magari si tratta di foto fatte in qualche macello rurale del Kazakistan negli anni 90, la macellazione occidentale odierna è molto meno cruenta ma poco importa: si deve sapere cos’è la morte. Ma finché si parla di alimentazione, è tutto comodo, in fondo anche per la caccia che nelle città magari rappresenta un capriccio di pochi mentre in certe zone, soprattutto montane, è qualcosa di molto più importante.

Ai vari discrimini per gerarchizzare gli animali (ausilio alle attività umane, affettività, ecc) l’ambientalismo ne ha aggiunto uno, superiore agli altri ma non cambia certo il paradigma: la vulnerabilità.
Il concetto di vulnerabilità ha portato alla categoria degli animali protetti. Un equivoco. In un’ottica seriamente ecologica gli animali non vanno protetti, semmai gestiti. Nella gestione deve essere compresa anche la protezione ovviamente, ma metodologicamente e non ideologicamente.
È questo il cambio di paradigma che serve per rispondere, oltre che alle questioni filosofiche, anche a problemi arcinoti come quello delle specie nocive (quelle nocive di per sé come certi insetti e roditori, e quelle che lo sono per questioni demografiche o genetiche come gli ungulati). Nocive non solo rispetto alle attività umane ma anche agli ecosistemi. La mancata gestione, o addirittura la tutela, di alcuni animali che seguono la nostra globalizzazione è uno dei maggiori rischi alla biodiversità e agli ecosistemi (scoiattoli grigi che sostituiscono gli scoiattoli rossi, le nutrie che danneggiano gli argini dei fiumi, i daini spazzolatori di germogli, il siluro superpredatore e untore delle acque dolci e via cantando).
In parte ci sono già degli strumenti normativi che, sebbene pensati in maniera restrittiva, potrebbero essere riconvertiti in strumenti di gestione sociale decisamente virtuosi.
Si pensi ai calendari venatori e relativi carnieri (cosa cacciare, quanto e quando) che invece di essere frutto di fosche e spesso indirette trattative burocratiche venate di interessi consensuali, se non clientelari (non si pensi necessariamente a favore dei sempre meno numerosi cacciatori, eh, le associazione animaliste sono ben più forti ormai), potrebbero essere oggetto di più aperte e scientifiche contrattazioni tra cacciatori, istituzioni e comunità scientifica, lasciando stare le associazioni animaliste (come se nelle vertenze sindacali si presentassero i partiti, già è assurdo che alle elezioni umane si presentino partiti antiumani).
Rafforzare il ruolo ecologico dei cacciatori, trasformando certe penalizzazioni moralistiche in responsabilità sarebbe un grande esperimento socialista. Si immagini un potenziamento della formazione naturalistica e balistica cui è già chiamato chi fa richiesta di licenza di caccia.
Avremmo una grande forza decentralizzata, slegata da enti e organizzazioni, che condurrebbe un quotidiano monitoraggio della fauna e della flora, antenne sociali che segnalerebbero alle istituzioni lo stato dei nostri boschi per pronti interventi.
Antenne, scusate la volgarità, non pagate ma che pagano.
In parte già è così, considerato il ruolo dei cacciatori nei censimenti, per non parlare delle giornate di ripristino ambientale, vera e propria manutenzione dei boschi cui i cacciatori sono tenuti alcune giornate l’anno.
A ciò si potrebbe anche affiancare la figura del cacciatore professionista, come avviene altrove, una figura che sarà sempre più necessaria per gestire la fauna nociva.
Una caccia serenamente organizzata è poi il miglior deterrente alla vera piaga che è il bracconaggio.
Come per ogni attività umana, proibire una attività non vuol dire eliminarla ma renderla più sregolata e dannosa. Vale per la droga come per la caccia. L’abolizione della caccia significherebbe l’aumento del bracconaggio, che è già l’aspetto disastroso dal punto di vista ecologico.
E i bracconieri, specialmente con l’abolizione dei porti d’arma da caccia, non è che usano i rumorosi fucili o i cani latranti. Usano silenziose e letali balestre modernissime, usano trappole e tecniche crudelmente insostenibili, nonché operano in orari più difficili da controllare.
Con l’eliminazione dei cacciatori che, un po’ per etica un po’ per rabbia verso chi caccia senza pagare e senza limitazioni, i boschi sarebbero ancor più alla mercé di questi fuorilegge.
Piccola nota: non c’è solo il problema del bracconaggio nostrano ma anche del bracconaggio e della caccia poco regolata all’estero, soprattutto nei paesi arabi dove vengono compiute stragi mostruose di migratori. Da qui l’esigenza, ancora una volta ecosocialista, di una regolamentazione internazionale della caccia ma il bello è questo: l’abolizione della caccia non è per davvero all’ordine del giorno da nessuna parte se non in Italia. In Francia, Spagna, Germania ma soprattutto nei paesi nordici alla caccia è stato ormai riconosciuto uno status abbastanza stabile di attività funzionale alla gestione del territorio e della fauna.
In parte la legge italiana del 1992 nasceva da simili presupposti, nati da un sano compromesso tra cacciatori e ambientalisti. Ma al di là dei dettagli tecnici che meriteranno un dibattito tecnico in un secondo momento, ciò che avviene con la caccia negli altri grandi stati europei serve a farci capire come andrebbe modellata una attività venatoria sana e sicura per l’essere umano nonché ecologica.
La caccia italiana soffre di problematiche italiane: la demografia è decrepita. I cacciatori sono in buona parte vecchi di provincia e poco istruiti. Nulla di seriamente attrattivo per i giovani che (raggiunta la tarda età di 18 anni per iniziare a cacciare), oltre agli alti costi e stigma sociale, hanno come riferimenti persone a loro totalmente aliene. Non è certo appetibile.
In Svezia, a quindici anni si può cacciare se accompagnati da un cacciatore esperto, ma già da bambini accompagnano i genitori in battuta. Molti di questi sono compagni socialdemocratici, tra i più civili ed ecologisti di tutta l’Internazionale Socialista. Altro scenario rispetto agli stagionatissimi fascisti e qualunquisti che rappresentano la maggioranza dei cacciatori nostrani.
Persone che iniziano a perdere la vista, che non si aggiornano, che non hanno neanche troppo rispetto per il prossimo oltre che per l’ambiente e infatti non è per difendere loro che va difesa la caccia. La caccia va difesa e migliorata proprio per andare oltre di loro ed esprimerne il potenziale ecologico e formativo, in sicurezza per chi la pratica e per l’ambiente stesso.
Varie forme di riserva di caccia, come le valli di caccia veneziane, potrebbero essere realtà di avanguardia per l’educazione ecologica e sociale di cittadini attivamente coinvolti in una gestione scientifica degli ecosistemi. Tra i migliori progetti di reintroduzione di specie estinte dal territorio italiano ci sono quelle partecipate dai cacciatori, come il progetto starna.
Per tale gestione, sembra paradossale ma così è, va contemplata anche la morte di animali. Non per un qualche compromesso peloso, ma proprio per valorizzare ciò che deve davvero contare ovvero l’umanità. Non si tratta di un delirio antropocentrico, di una rivendicazione di domini biblici sulla natura ma della consapevolezza che più si rafforzano ambientalismo e animalismo più va a sciogliersi il patto sociale tra esseri umani.
Ed è poi già evidente come gli ambientalisti, pur essendo molto più numerosi e zelanti dei cacciatori, non contribuiscono alla manutenzione dei territori agro-silvo-pastorali come fanno i pochi cacciatori rimasti (qualche centinaio di migliaia di attivi).
Inoltre, la risposta degli animalisti alle grida di aiuto di confagricoltura rispetto ai danni perpetrati da ungulati, storni e altre specie nocive, mette in risalto l’assoluta impoliticità di animalismo e ambientalismo: contributi regionali per le perdite. Ovvero spesa pubblica, imposte, inefficienza amministrativa e ovviamente relative truffe e corruzione invece che abbattere i capi in eccesso attraverso un’attività che l’economia, come si suol dire, la fa girare veramente non come queste frange pseudoecologiste che sanno solo affaticare e rendere inefficiente (e in ultima analisi meno ecologica) la società umana.
Altra nota: il lupo è tornato, preferisce però gli allevamenti, ben più comodi rispetto ai cinghialoni odierni che, causa ibridazioni con specie aliene, non sono più quelli cui erano abituati i predatori nostrani. Se poi gli ambientalisti vogliono reintrodurre anche i leoni discuteremo pure di questo…
I progetti di abbattimento contenitivo di specie invasive già in atto sono l’esempio di quanto la pressione animalista deformi principi corretti. I cacciatori chiamati a occuparsi di ciò a spese loro, tra l’altro anche in mesi estivi in cui il ragù di cinghiale non è esattamente il piatto più richiesto, devono smaltirsele da loro le carcasse. Questo impianto rappresenta un disincentivo ovviamente (non sono degli psicopatici assetati di sangue che andrebbero a caccia a qualunque costo).
Però poi il mancato raggiungimento delle quote previste, con relativo calcolo del danno, viene scaricato sui costi di concessione ovvero sulle tasche dei cacciatori stessi. Una ipocrisia assurda che testimonia come lo Stato sia consapevole del ruolo fondamentale dei cacciatori ma, invece di incentivare e responsabilizzare, disincentiva e punisce.
Sarà pure sgradevole cacciare per sport, ma considerando il ruolo ecologico delle attività venatorie non è possibile mettersi a fare distinguo tra chi caccia per piacere e chi caccia per dovere. Anzi, come spesso succede, una attività svolta solo per dovere e meccanicamente rischia di essere molto più disumana. Il ruolo ecologico, economico, alimentare, culturale della caccia basta già da sé.
Il CONI dovrebbe riaccettare i cacciatori al proprio interno, promuovendo la caccia tra i giovani.
Proprio ora che il peso politico e la fama dei cacciatori sono infimi, considerata la demografia e la cultura, sarebbe perfetto rinfoltirne le schiere con giovani donne e uomini attrezzati di seria preparazione ecologica, sensibilità ambientale e umanità moderna.
Purtroppo non sarà possibile, perché le associazioni venatorie sono veramente impresentabili nei dibatti pubblici, i loro referenti politici son poi quel che sono; e anche riflessioni come questa mia, che parlano di come la caccia dovrebbe essere ma non è (e forse non può essere, visto come non è l’Italia), lasceranno il tempo che trovano.