È ormai consuetudine per gli europeisti orientare la propria visione politica a partire da Ventotene, dove Altiero Spinelli redasse il Manifesto Per un’Europa libera e unita. Oggi, richiamarsi a quello spirito appare più urgente che mai.

L’Unione Europea si presenta infatti frammentata e vulnerabile, intrappolata in un contesto interno ed esterno ostile. Con appena il 5% della popolazione mondiale e un crescente divario economico rispetto alle altre grandi potenze, l’Europa non solo si confronta con un mondo dominato da imperi continentali, ma rischia concretamente di scivolare in una condizione di subordinazione rispetto agli Stati Uniti. Questo è emerso con chiarezza dalle concessioni unilaterali fatte all’amministrazione Trump in materia di difesa e commercio, così come dall’accettazione di un ruolo marginale nella gestione del conflitto in Ucraina. Parallelamente, dalla Striscia di Gaza al Nagorno-Karabakh, l’UE ha perso centralità internazionale, indebolita da una cronica mancanza di credibilità e di coesione.

Sul piano interno, il secondo mandato della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen è stato segnato dal fallimento del Green Deal – il progetto simbolo della precedente legislatura – come se l’aggravarsi della crisi climatica non richiedesse risposte sempre più incisive. La proposta di un Quadro Finanziario Pluriennale privo di reali aumenti di bilancio ha ulteriormente sacrificato la politica di coesione, privilegiando nuove priorità in ambito difensivo e di ricerca. Intanto, le forze populiste, euroscettiche ed eurofobe, hanno consolidato la loro influenza sia all’interno degli Stati membri sia nelle istituzioni europee.

L’attuale leadership dell’Unione appare priva di una visione di lungo periodo, di coerenza strategica e di unità politica. Oggi una fragile alleanza tra nostalgici atlantisti e sostenitori di Trump sembra dettare la linea prevalente, orientata a compiacere Washington nella speranza di limitarne gli effetti destabilizzanti. Ciò non ha fatto che accrescere la dipendenza europea in campo politico, economico e strategico, senza tuttavia produrre benefici concreti.

L’esperienza dimostra che Trump non è, né potrà mai essere, un vero alleato dell’Europa. La sua politica si fonda su una logica transazionale, mirata esclusivamente al vantaggio economico immediato degli Stati Uniti. Le concessioni europee in materia di spesa militare o acquisti energetici non hanno comportato un maggiore impegno americano per la sicurezza collettiva, né hanno attenuato la minaccia di dazi punitivi. Parallelamente, la mancanza di disponibilità di Putin a negoziare impedisce a Trump di perseguire un accordo favorevole a Mosca. È quindi evidente che l’America trumpiana costituisca per l’Europa uno shock geopolitico, economico e culturale senza precedenti. Tuttavia, trasformarsi in un protettorato statunitense non è un destino ineluttabile, anche alla luce della crescente indignazione dell’opinione pubblica europea di fronte a concessioni e umiliazioni reiterate.

Un’alternativa esiste. Un rafforzamento della maggioranza filoeuropea nelle tre istituzioni dell’Unione – e in particolare nel Parlamento europeo – potrebbe consentire di recuperare capacità di autodeterminazione. Il Parlamento, in quanto organo di controllo sulla Commissione e titolare del potere di censura, può imprimere un nuovo indirizzo politico. Un primo passo potrebbe consistere nel bloccare la riduzione dei dazi sui prodotti statunitensi: una misura popolare tra gli elettori e un chiaro segnale di autonomia rispetto al ricatto americano.

Al contempo, è indispensabile consolidare la nostra unione politica, superando la “vetocrazia” che consente a singoli leader – come il primo ministro ungherese Viktor Orbán – di paralizzare le decisioni strategiche, inclusa l’assistenza militare all’Ucraina. L’Europa deve dotarsi di una propria capacità di difesa, indipendente dagli Stati Uniti e credibile agli occhi del Cremlino.

Scelte di questo tipo sarebbero ampiamente sostenute dalla maggioranza dei cittadini europei. Come ha ricordato Mario Draghi, non diventeremo una potenza geopolitica limitandoci a rilanciare il mercato interno e la competitività: serve un salto federale, che liberi l’Unione dai vincoli dell’unanimità e dalla mancanza di competenze reali in politica estera e di sicurezza.

I principali Stati membri dovrebbero promuovere senza indugio l’attivazione della clausola di difesa comune e una riforma dei Trattati, in collaborazione con il Parlamento europeo, titolare del potere di veto sul bilancio. In alternativa, una coalizione di Paesi volenterosi potrebbe dar vita a una nuova “Comunità europea di difesa” con dimensione parlamentare e fiscale, aperta a chiunque fosse disposto ad aderire.

Se l’Europa continuerà a rinviare le decisioni più difficili attendendo la prossima crisi, il rischio concreto è che il progetto politico europeo perda definitivamente la propria ragion d’essere.