La notizia della possibile candidatura di Giuseppe Conte nelle suppletive nel collegio di Siena, in quanto Pier Carlo Padoan lascerà lo scranno in Parlamento per diventare presidente di Unicredit, qualche piccolo scompiglio l’ha portato. Un rientro al volo, dopo la sfiducia rimediata in Parlamento, poteva certo essere un modo per rimanere sulle barricate (o meglio, sotto i riflettori).

Dal Pd toscano, uno dei più in salute d’Italia nonostante gli acciacchi, sono arrivate subito voci contrarie, volte ad impedire arrivi con il paracadute. Per carità, non sarebbe affatto la prima volta: e non di rado gli elettori hanno accettato con spirito di lealtà e servizio le scelte dei vertici di partito.
Come sappiamo il Partito democratico, secondo lo schema Bettini-Zingaretti-Franceschini, viaggia sul binario dell’alleanza “organica” con i Cinquestelle ormai da tempo. Tanto che in Puglia il governatore Emiliano ha già inserito in giunta un assessore grillino (ma anche questo voler essere il primo non sorprende, visto il personaggio). Eppure, se lo volessero, Draghi potrebbe dare al Pd una chance non da poco: rimettersi a fare politica lasciando al palo la carovana populista, impastata nelle sue contraddizioni, negli evidenti fallimenti e nelle convulsioni da dipanare, forse, con l’anima di Rousseau. Perché, se il governo si farà (e ci sono pochi dubbi), ci saranno un paio di anni di tempo per rivedere le strategie. E non sarebbe male anche rivedersi in un quadro più consono rispetto agli spettacoli di comicità: ai quali fa certo bene andare, ma dopo aver fatto politica, possibilmente non in costanza di essa.

Se il governo uscente poteva essere una necessità per mandare a casa quel Salvini che aveva fatto scendere le tenebre su un paese tenuto ostaggio dalla paura dell’immigrato, che si tramutava ogni giorno di più in razzismo, Draghi, se “usato” con cura, potrebbe essere la via per riacquistare centralità e credibilità dopo averla ceduta inopinatamente ad un ex premier dal tono paternalista e con poca sostanza (basti vedere la prima stesura del Recovery Plan, o il fantasma degli Stati Generali a Roma). E che comunque di più non può. L’ex banchiere centrale porta con sé qualcosa che in Italia pareva ormai avere poco peso nelle scelte: la competenza. E questa, almeno per due anni, potrebbe essere l’occasione per iniziare di nuovo a parlare del merito delle cose, azzerando i proclami. Insomma, si finirebbe di rincorrere e si avrebbe il tempo di ricostruire i termini di una identità, e quindi di una politica progressista seria.

La ricerca delle competenze passa, obbligatoriamente, attraverso la capacità di riconoscerle. Che ovviamente, richiede lo sforzo di uscire dalla logica da post true, buona solo per abbagli emozionali. E capace solo di creare un indistinto, e non di cogliere le differenze né tantomeno la capability. Draghi può dare questa possibilità di riconoscimento, insieme all’evidenza della inutile tragicità dei sovranismi. È una grande occasione di allontanare populisti e populismo, che avranno pure garantito la maggioranza Ursula, ma appaiono inemendabili dal punto di vista politico.

Per la sinistra non è l’ora né di Bad Godesberg né tantomeno di Epinay. Non c’è tempo e modo, pur se sarebbe sempre auspicabile vertebrare il Pd del “ma anche”. Ma saranno i tempi a dettare l’agenda politica. E per tornare un attimo ad un possibile paracadute per Conte, il parallelo con la concessione del blindato collegio del Mugello a Di Pietro, voluto da D’Alema, nasce quasi spontaneo. Come val la pena ricordare l’alleanza privilegiata con lo stesso Di Pietro di Veltroni, appena acclamato leader del neonato Partito democratico. Anche quello era populismo: e abbiamo visto come è andata a finire.

Ci sarebbero, tra l’altro, le elezioni a Roma tra non molto tempo (pandemia permettendo, ovviamente): che pare essere ancora la capitale d’Italia. Riconquistare i consensi in una città disastrata, simbolo del fallimento grillino per eccellenza, impegnandosi nella ricerca e sviluppo di piani reali per una sua rinascita, potrebbe essere un banco di prova interessante. Un tempo il municipio per la sinistra era la prima cellula del cambiamento. A meno che non si continui a pensare che il perimetro elettorale aumenti solo con le alleanze, e non con il proprio lavoro. Forse, invece di consumare energie a tentare di “normalizzare” qualcuno che probabilmente o non ne sente il bisogno (perché basa la sua identità su canoni legittimamente diversi, o al massimo scambia il cambiamento con forme di adattamento alla bisogna), sarebbe il caso di incamminarsi su altre strade.