La Corte Penale Internazionale (CPI) rappresenta un pilastro fondamentale nella lotta contro l’impunità per i crimini più gravi commessi a livello globale. Istituita nel 2002, la CPI ha ereditato l’impegno del Tribunale di Norimberga, proseguendo la missione di garantire giustizia alle vittime delle più gravi violazioni dei diritti umani. Tuttavia, il recente inasprimento delle sanzioni da parte degli Stati Uniti nei confronti della Corte solleva interrogativi sulla reale volontà della comunità internazionale di sostenere un sistema giudiziario equo e imparziale.
Le sanzioni imposte dall’amministrazione statunitense non solo ostacolano il lavoro della CPI, ma minano anche le speranze di migliaia di vittime in cerca di giustizia. Colpendo chiunque collabori con la Corte, comprese ONG, aziende e avvocati, tali misure minacciano il funzionamento stesso dell’istituzione e mettono in discussione l’effettiva indipendenza della giustizia internazionale. In un mondo in cui il rispetto dello stato di diritto dovrebbe essere universale, questi attacchi alla CPI rappresentano un pericoloso precedente.
Dal 2002, la CPI ha perseguito 68 individui, portando 33 di loro a processo. Le sue azioni hanno contribuito a rendere giustizia a vittime di atrocità in luoghi come la Repubblica Democratica del Congo e il Mali. Tuttavia, molti altri casi rimangono irrisolti: i bambini ucraini deportati dal regime russo, le vittime dei conflitti in Afghanistan, Darfur, Libia, Myanmar e Venezuela, così come gli israeliani massacrati da Hamas e i civili di Gaza colpiti dai crimini di guerra israeliani, sono ancora in attesa di risposte.
L’incoerenza delle reazioni politiche alla CPI evidenzia il rischio di una giustizia a due livelli. I funzionari statunitensi che oggi criticano i mandati di arresto contro i leader israeliani erano gli stessi che, nel marzo 2023, avevano lodato i mandati emessi contro il presidente russo Vladimir Putin e la commissaria per i diritti dei bambini Maria Lvova-Belova. All’epoca, il senatore Lindsey Graham definì tali mandati “un passo importante per un ordine mondiale basato sullo stato di diritto”. Questa evidente discrepanza solleva il dubbio che la giustizia della CPI sia accettata solo quando si allinea agli interessi geopolitici delle grandi potenze.
Di fronte a queste pressioni, l’Europa ha una responsabilità cruciale. L’Unione Europea non può permettere che l’amministrazione statunitense comprometta i valori fondanti dell’UE e la stabilità degli strumenti multilaterali per la tutela dei diritti umani. Per questo motivo, si rende necessaria l’attivazione dello “statuto di blocco”, uno strumento giuridico pensato per proteggere individui e imprese europee dagli effetti extraterritoriali delle sanzioni di paesi terzi. Già utilizzato per difendere le aziende europee dalle sanzioni statunitensi contro Cuba e Iran, esso costituirebbe un mezzo efficace per garantire la continuità della collaborazione con la CPI e riaffermare il principio dell’indipendenza della giustizia internazionale.
La protezione della Corte da interferenze esterne non è soltanto una questione politica, ma un dovere giuridico per tutti i firmatari dello Statuto di Roma. Consentire agli Stati Uniti di dettare le condizioni della giustizia internazionale significherebbe rinunciare alla sovranità giuridica europea e minare la fiducia delle vittime nei meccanismi di tutela dei loro diritti.
La CPI non è perfetta, ma rappresenta uno degli strumenti più avanzati per perseguire i crimini più gravi e garantire che nessun individuo, indipendentemente dalla sua posizione di potere, possa sottrarsi alla giustizia. Difenderla significa difendere un ordine mondiale basato su regole e principi condivisi, senza eccezioni legate agli interessi geopolitici. Per questo motivo, è essenziale che i paesi membri dell’UE e le istituzioni europee si uniscano per sostenerla, riaffermando con forza il primato del diritto internazionale sulla politica di (pre)-potenza.
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