Nel numero di Mondoperaio di febbraio, avevamo analizzato la questione dei fondi afgani “congelati” nelle casse della Federal Reserve americana dove si trovavano il 15 agosto quando il governo di Ashraf Ghani crollò sotto la spinta talebana. Si tratta di sette miliardi di dollari “congelati” negli Usa e di altri 2 miliardi che si troverebbe soprattutto in Germania, Svizzera, Emirati e Qatar. Il contante “fisico”, stampato su ordine della Banca centrale afgana, si trova invece, congelato anch’esso, in Polonia. Ne abbiamo denunciato l’uso politico da parte di un Paese che ha perso la guerra afgana e che sembrava voglia gestire il blocco di quei fondi come una vendetta postuma. I fatti recenti ci hanno dato ragione. L’11 di febbraio il presidente Joe Biden ha firmato un ordine esecutivo di spezza in due gli asset congelati: parte del denaro – 3,5 miliardi – tornerà in Afghanistan ma non nelle casse del regime che ha vinto la guerra. Gli altri 3,5 miliardi resteranno congelati in attesa che la magistratura americana decida sulla richiesta di 150 familiari delle vittime dell’11 settembre che vogliono che quel denaro li ripaghi della loro sofferenza.
I 3,5 miliardi per l’Afghanistan scongelati, secondo quanto deciso da Biden confluiranno, in un fondo fiduciario per assistenza umanitaria ma che sarà tenuto lontano dalle mani dei Talebani. La creazione del trust fund non sarà però un meccanismo semplice perché l’istituzione di questo fondo e l’elaborazione dei dettagli legali potrebbero richiedere diversi mesi. Resta dunque lo schiaffo al regime e l’attesa su una tempistica incerta. La decisione garantisce una punizione ai nemici mentre riconosce il diritto ai cittadini americani di essere ripagati per la strage del 2001. Si potrebbe proprio dire che la vendetta è un piatto che si consuma freddo.
La decisione di tenere congelati in America il denaro degli afgani come compensazione per le vittime di un atto cui i Talebani sono tra l’altro estranei (l’11/9 fu opera di Al Qaeda), ha sollevato dubbi legali e un coro di critiche e costituisce un pericoloso precedente. Ma anche la seconda opzione solleva forti perplessità: scegliendo di far tornare metà dei fondi in Afghanistan, scavalcando il governo dei Talebani, Biden fa una sorta di operazione umanitaria di facciata che avrà però riflessi nefasti su un Paese al collasso. Non solo perché occorreranno altri mesi (sei sono già passati) per scongelare realmente i fondi. Ma perché decidere di bypassare l’esecutivo di Kabul significa non metterlo in grado di pagare gli stipendi a insegnanti, medici, funzione pubblica. Significa che quei soldi si trasformeranno in una carità pelosa che non mette il governo nelle condizioni di risollevare la macchina dello Stato, in capo a scuole, ospedali, uffici pubblici. Una vendetta che certo colpisce i Talebani ma che, innanzi tutto, penalizza oltre 30 milioni di afgani che dovranno accontentarsi di cibo e medicine ma non di uno Stato – buono o cattivo che sia – in grado di assisterli.
Non si tratta qui di avere pietà o simpatia per un regime oscurantista e teocratico con un esecutivo quasi etnicamente puro e responsabile – direttamente o indirettamente – di sequestri di attiviste e di esecuzioni extragiudiziali. Si tratta di capire se si intende proseguire la guerra con altri mezzi, vendicandosi dei nemici e punendo coloro che vivono in Afghanistan sotto il loro regime. Si tratta di capire se si vuole chiudere davvero il capitolo di quel conflitto o fingere di poterlo vincere con il ricatto e la vendetta. Uscirne a testa alta tenendo fermi i principi sacrosanti della democrazia e del diritto o aggirare meschinamente il problema affamando un popolo per colpirne i vertici.
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