Viviamo in tempi in cui la disonestà intellettuale è diventata la regola dominante del dibattito politico. Con l green pass, però, si era ormai arrivati a raschiare il fondo di un barile ormai divenuto esile come una carte velina. Scomodare i diritti costituzionali, paragonare Draghi ad Hitler, esibire una stella gialla da parte dei renitenti alla vaccinazione (è addirittura esagerato chiamarli No Vax, perché costoro sono portatori di un delirio ideologico, mentre la gran parte di coloro che scendono in piazza adesso sono soltanto dei ‘’terrapiattisti’’ a loro insaputa) è un rigurgito di irrazionalità conclamata, perciò arrogante come capita a quanti intendono propagandare una tesi senza avere argomenti. Per fortuna Mario Draghi ha tirato diritto. Con il DL 127/2021 è stata resa obbligatoria la certificazione verde Covid-19 (c.d. green pass) per l’accesso nei locali di socialità pubblici e privati (comprese le aziende) a partire dal 15 ottobre fino alla fine dell’anno in corso.
Considero le misure contenute nel decreto legge in esame assolutamente corrette sul piano giuridico ed opportune su quello del normale ‘’vivere civile’’.
Anzi le norme (sia pure con disposizioni che tengono conto delle differenti condizioni di lavoro) che estendono l’applicazione della certificazione verde Covid-19 ‘’per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato’’, costituisce a mio avviso un vero e proprio ‘’rovesciamento della prassi’’ rispetto alle misure adottate dal governo in carica nel corso del 2020. In questa fase l’obiettivo prioritario è quello di evitare il ricorso a nuove chiusure, perché, come stiamo osservando, le riaperture sono state il contributo più importante per la ripresa in atto. Se posso, poi, essere franco mi sento di affermare che i provvedimenti contenuti nel decreto citato consentono – grazie anche alle possibilità consentite dai risultati delle vaccinazioni – il recupero di un ambito di libertà di cui siamo stati privati durante le fasi più gravi della pandemia dall’adozione di misure restrittive che risentivano dell’improvvisazione indotta dal dover fare fronte ad un fenomeno fino allora sconosciuto. Durante i mesi funestati dal virus, prima delle vaccinazioni, per evitare che le persone infette diffondessero il contagio sono stati chiusi i luoghi di frequentazione comune: i locali pubblici, i negozi, gli ipermercati, i cinema e i teatri, gli uffici pubblici, mentre altri accessi sono stati limitati secondo regole ed orari vincolanti. Per mesi si è persino adottata una misura da stato di guerra (o di Polizia) come il coprifuoco. Sono rimaste chiuse le Chiese (fino a quando non sono stati disposti limiti di capienza), vietati i matrimoni e i funerali, rinviate le sepolture, noleggiati i cani da passeggio, spostati a data da destinarsi gli accertamenti sanitari per patologie diverse dal contagio, sospesi gli interventi chirurgici anche per casi piuttosto gravi, tanto che si attribuisce a questa situazione una parte rilevante del maggior numero di decessi riscontrati nel 2020, rispetto alla media degli anni precedenti. A me sembra di gran lunga preferibile – anche sul terreno dei diritti – proibire l’ingresso in un ristorante a chi potrebbe contagiare gli altri avventori, piuttosto che chiudere il locale per impedire che quella persona entri.
2.Il green pass non costituisce un obbligo a sottoporsi alla vaccinazione, ma è un salvacondotto per la mobilità in luoghi ‘’di socialità’’ in cui ciascuno è tenuto a farsi carico della sicurezza degli altri. L’alternativa è prevista: dimostrare attraverso l’esito di un tampone rispondente alle prescrizioni (che deve avere un prezzo politico, come per le mascherine) di non essere portatori del contagio. Ed è stata necessaria l’estensione ai luoghi di lavoro, perché è lì che si svolge la vita del Paese. A mio avviso è importante distinguere tra l’obbligo del green pass o del tampone e l’obbligo della vaccinazione per tutti i cittadini. Questa sarebbe un’operazione mastodontica del tutto inutile, anche perché dovrebbe essere ripetuta periodicamente, in relazione alle varianti del virus. Diverso è il caso di un obbligo vaccinale per certe categorie come il personale sanitario e scolastico. Poi, che i cittadini si siano sottoposti alla somministrazione obbligatoria non può essere presunto perché lo prevede la legge; a quel punto occorrerebbe pur sempre esibire una certificazione, nei fatti autorizzativa o preclusiva rispetto a talune azioni della vita quotidiana. Peraltro il green pass è la logica conseguenza delle misure relative all’accesso nei luoghi di lavoro stabilite fin dall’aprile 2020 nei Protocolli sottoscritti dal governo e dalle parti sociali. Certo, non era prescritto nulla a proposito della vaccinazione, per il semplice motivo che i vaccini non erano ancora disponibili. Tuttavia, per entrare in azienda occorreva dimostrare, con le modalità allora possibili, di non aver contratto il contagio. Il personale, prima di accedere in azienda, poteva essere sottoposto al controllo della temperatura e con un esito superiore a 37,5° gli veniva impedito l’ingresso, era posto in isolamento e doveva mettersi in contatto col proprio medico perché gli era inibito persino l’accesso all’eventuale infermeria. Lo stesso trattamento era riservato a chi avvertiva i sintomi tipici durante il lavoro. Il ritorno in azienda dei contagiati da Covid-19 doveva essere preceduto dalla preventiva certificazione medica riguardante l’avvenuta ‘’negativizzazione’’ del tampone. Era poi prevista una sorveglianza periodica per intercettare i casi di contagio. La logica di queste precauzioni condivise conduce ad una conclusione: tutte queste pratiche, decise quando la lotta alla pandemia si faceva con l’acqua e il sapone, trovano una conclusione più razionale, efficace ed operativa nel green pass. Per quanto il nostro sia il tempo dei nuovi ‘’diritti civili’’ non siano ancora arrivati a concepire che una persona abbia il diritto di mettere a rischio la salute o la vita di un’altra.
3. Vi è poi un ulteriore argomento – a mio avviso decisivo – che giustifica l’obbligo della certificazione verde, secondo le modalità previste. Il contagio da covid-19 contratto ‘’in occasione di lavoro’’ (e quindi anche in itinere) è considerato infortunio sul lavoro. L’articolo 42 comma 2 del decreto Cura Italia n.18/2020 stabilisce che:’’ Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro (….). La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati’’. Lo stesso Inail con Circolare n.13/2020 ha rilevato che “l’orientamento interpretativo offerto dal legislatore, in ordine alla riconduzione del fenomeno di contrazione del virus in occasione di lavoro alla fattispecie di infortunio, si mostra perfettamente aderente al consolidato indirizzo dell’Istituto sulla trattazione delle malattie infettive e parassitarie”. Ovvero la causa virulenta è equiparata alla causa violenta che determina l’infortunio sul lavoro. Il fatto è che quando c’è di mezzo un infortunio è in agguato anche la responsabilità penale e civile del datore di lavoro per effetto non solo delle disposizioni specifiche in materia, ma soprattutto per quella ‘’norma di chiusura’’ (volgarmente un asso pigliatutto) contenuta nell’articolo 2087 c.c. (Tutela delle condizioni di lavoro), che riporto di seguito: ’’ L’imprenditore e’ tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’’. In sostanza, l’ambito di responsabilità del datore non è limitato all’osservanza di quanto prevedono le norme di volta in volta vigenti (che non vengono neppure richiamate nell’articolo) in materia di sicurezza del lavoro; il confine è quello – tanto ampio da essere vago, mobile e imprevedibile – della ‘’esperienza’’ e della ‘’tecnica’’. Il legislatore era corso ai ripari nell’articolo 29-bis (Obblighi dei datori di lavoro per la tutela contro il rischio di contagio da COVID-19) del “decreto liquidità” (n. 23/2020); un articolo inserito in sede di conversione (l. n. 40/2020) il quale disponeva espressamente che: “Ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sottoscritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integrazioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonchè mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Ammesso e non concesso che l’articolo citato possa essere ritenuto una norma di interpretazione autentica dell’articolo 2087 c.c. per la sola fattispecie dell’infortunio da covid-19 in occasione di lavoro (peraltro con riferimento a norme di carattere amministrativo e/o pattizio) è evidente l’opportunità di un aggiornamento dei Protocolli stipulati dalle parti sociali che, con grande senso di responsabilità, hanno consentito la riapertura delle aziende e la ripresa della produzione in condizioni di relativa sicurezza per i lavoratori (anche se vi sono state 175mila denunce di infortunio da Covid-19, con ben 600 decessi). Essendo intervenuto un fatto nuovo – il vaccino – nel contesto delle misure concordate per salvaguardare al meglio la sicurezza in occasione di lavoro, l’imprenditore deve tener conto di quanto l’esperienza e la tecnica gli hanno messo a disposizione. E’ un obbligo a cui deve adempiere in proprio, a prescindere dalla disponibilità del dipendente. E in caso di danno grave o di morte, a seguito di contagio riconosciuto come infortunio sul lavoro, potrebbe comunque essere chiamato a risponderne. Non potrebbe cavarsela, infatti, adducendo la contrarietà del lavoratore.

4.In tal senso, prima che intervenisse il legislatore (completando l’ambito di intervento con il decreto in esame) a queste conclusioni era arrivata la prima giurisprudenza in materia. Dopo quelli di Udine e Belluno, il Tribunale di Modena con ordinanza n. 2467 del 23 luglio 2021, ha riconosciuto la piena legittimità del provvedimento di sospensione dal lavoro senza retribuzione adottato da un datore di lavoro operante in una RSA ove due addetti con mansioni sanitarie avevano rifiutato di vaccinarsi contro il Covid-19. Il Tribunale ha osservato che, ai sensi del D.L.vo n. 81/2008 (il codice sulla sicurezza del lavoro), l’imprenditore è garante della salute e della sicurezza sia degli altri dipendenti che dei terzi. Il rifiuto della vaccinazione se pur non può dar adito, secondo il Tribunale, a provvedimenti di natura disciplinare, può avere, tuttavia, delle conseguenze sul piano dell’oggettivo impedimento a svolgere determinate mansioni, soprattutto se a contatto con altre persone, anch’esse dipendenti o terzi Verificato tale impedimento, il Tribunale ha ritenuto corretto il comportamento del datore che ha proceduto a sospendere i due dipendenti senza la corresponsione di alcuna retribuzione. Il cambiamento di mansione o la prestazione da remoto possono essere soluzioni praticabili, ma è necessario che ve ne siano le condizioni. È bene notare che questa ordinanza precede il nuovo quadro giuridico introdotto dal decreto in esame, ritenendo corretto il comportamento del datore sulla base delle norme già in vigore.
Il decreto sull’estensione della certificazione verde poi stabilisce che la carenza della certificazione stessa o anche la sua mancata esibizione, impedendo l’accesso all’ufficio, comporta un’assenza dall’ufficio medesimo, che è specificamente considerata non giustificata, in ragione del fatto che la certificazione può essere agevolmente acquisita da chiunque. Dall’assenza, tuttavia, è espressamente escluso che possano derivare conseguenze incidenti sul rapporto di lavoro, salva la perdita della relativa retribuzione o di ogni compenso o emolumento comunque denominato. Sappiano che anche la parola ‘’sospensione’’ non ha trovato posto nel decreto, si immagina per il suo carattere di sanzione disciplinare. Rimane tuttavia l’impressione di un ragionamento sospeso. I contratti di lavoro sanzionano le assenze ingiustificate, ripetute nel tempo, con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo (una tipologia di recesso che è sempre rimasta in vigore anche durante il divieto). Fino a quando può durare un rapporto di lavoro in cui non esiste più lo scambio tra prestazione e retribuzione? Fino a quando un’azienda – magari piccola – può avere a suo carico un dipendente assente? Lo sostituisce stipulando – giorno dopo giorno – un contratto a termine con un’altra persona? Si rivolge al lavoro interinale o somministrato? Se sono comprensibili i motivi di cautela in una fase delicata come l’attuale, non sarebbe strano cominciare a porsi il problema della risoluzione di un rapporto di lavoro, rato ma non consumato. In sostanza, il green pass (che può essere rilasciato dopo la vaccinazione o dopo l’esito di un tampone è la certificazione di adempimenti che attengono al rapporto di lavoro, nel senso che il datore ha nei confronti del proprio dipendente un obbligo di garantirgli la sicurezza nello svolgimento delle sue mansioni nel migliore dei modi possibili ancorchè anche in presenza di un infortunio determinato da caso fortuito, forza maggiore o colpa lieve del lavoratore il quale ha il dovere di collaborare, attenendosi alle disposizioni del datore. Nella sua essenzialità la questione si pone in questi termini: il datore non può imporre al dipendente di vaccinarsi, ma ha il potere e il dovere di mettere in atto tutte le misure necessarie per tutelare la salute degli altri dipendenti, compresa quella del no vax. Non si deve mai dimenticare che è infortunio anche l’evento che si verifica in itinere, quando entrano in gioco fattori che non dipendono dalle misure di sicurezza adottate nell’impresa, ma che, in caso di esiti gravi ne possono chiamare in causa la responsabilità civile e penale..

Giuliano Cazzola