L’intellettuale massa

Francesco Nicodemo

“Gli intellettuali sono un gruppo sociale autonomo e indipendente, oppure ogni gruppo sociale ha una sua propria categoria specializzata di intellettuali?”, domandava Antonio Gramsci nei suoi Quaderni. Egli sosteneva che i processi di formazione delle categorie di intellettuali fossero riconducibili sostanzialmente a due forme. La prima è quella creata da ciascun gruppo sociale: il quale, dovendo svolgere delle funzioni che gli sono proprie in ogni ambito (economico, politico, ecc), necessita degli intellettuali per avere omogeneità e consapevolezza del proprio ruolo. La seconda forma comprende gli intellettuali già preesistenti, che sopravvivono e sono in un certo senso refrattari ai cambiamenti economici e sociali, come ad esempio gli ecclesiastici. I primi sono definiti intellettuali “organici”, i secondi “tradizionali”. Si domandava ancora Gramsci: “Quali sono i limiti ‘massimi’ dell’accezione di ‘intellettuale’? Si può trovare un criterio unitario per caratterizzare ugualmente tutte le diverse e disparate attività intellettuali e per distinguere queste nello stesso tempo e in modo essenziale dalle attività degli altri raggruppamenti sociali?”. Nel rispondere al quesito evidenziava come fosse necessario pensare alle attività intellettuali non singolarmente, ma nell’insieme dei rapporti sociali.

Senza pretendere di forzare il senso ben più ampio e complesso delle profonde riflessioni gramsciane, le considerazioni riportate sono dotate di una straordinaria modernità, se pensiamo ai tempi che stiamo vivendo. Che ciascuno di noi dia il proprio senso alla realtà che lo circonda, la filtri e ne offra una personale lettura è evidente: e dal momento in cui la comunica condiziona direttamente o meno gli altri. C’è chi ne è consapevole, facendone la propria attività prioritaria, e c’è chi invece non se ne rende conto. In altre parole, svolgiamo un ruolo da intellettuali pur non essendolo (o almeno, pur non essendolo tutti). È sempre stato così, ma oggi usufruiamo di strumenti e mezzi i più disparati per farlo, e di maggiori capacità rispetto al passato.

Il medium privilegiato di tale processo è senza dubbio la rete. Quest’ultima ha tramutato i cittadini, trasformandoli in una categoria di soggetti giuridici digitali con peculiarità specifiche e diritti che in passato sono stati definiti di “quarta generazione” (dopo quelli civili, politici e sociali). Oltre agli aspetti di carattere giuridico, è tuttavia incontrovertibile che il cittadino abbia profondamente visto cambiare il proprio rapporto con i media. Abbandonato il ruolo passivo e semplice di utente, sta diventando un soggetto attivo nella discussione pubblica, dotato di competenze e nozioni. Alla comunicazione one-to-many, uno verso molti, è subentrata una nuova tipologia che contempla il modello di comunicazione many-to-many, tipico appunto delle relazioni che avvengono sulla rete e in particolare sui social network. Pochi si rendono conto di quanto possa pesare la propria opinione in rete. Ma se siamo in balia della post-verità, se la fiducia nei canali tradizionali è sempre più bassa, se si prende come punto di riferimento ciò che dice l’amico, il collega o il conoscente più impegnato, come fare a orientarsi nel rumore talvolta indistinto e confuso della rete? Ciascuno di noi è portatore di senso, proprio perché è in grado di leggere la realtà attraverso la propria lente: averne consapevolezza e utilizzarla è il modo in cui ciascuno di noi partecipa a un pezzo di cammino nella storia della propria comunità. E allora, trasformare gli utenti della rete in attivisti capaci di svolgere la funzione di influencer, di ‘intellettuali’ nei propri gruppi e cerchie (online e offline), in grado quindi di sensibilizzare e mobilitare amici e conoscenti, è una sfida innanzitutto organizzativa e politica.

Per riprendere una delle riflessioni gramsciane, ciascuno di noi è un soggetto attivo che filtra il mondo che lo circonda attribuendogli un senso e un significato proprio. Qui però si pone un altro problema, perché siamo esseri tendenti al conformismo che si fidano di chi è più vicino a noi nel quotidiano, e la rete ha amplificato il fenomeno, diffondendo la controversa idea che uno valga uno. Il fatto che si possa giustamente accedere in maniera libera alla rete e che tutti abbiano un’ulteriore modalità per esprimere le nostre opinioni non deve farci dimenticare un punto fondamentale. Se si parla di scienza, il parere di uno studioso non può essere posto sullo stesso piano di quello di un profano.

Insomma: esiste anche in rete un implicito principio di autorevolezza che dovrebbe assicurare una diversa credibilità a seconda dei casi. Se sulla rete ognuno di noi può allo stesso tempo produrre flusso informativo, usufruirne e diffonderlo, non dobbiamo limitarci all’apprendimento passivo, fatto di riflesso, senza sviluppare un’imprescindibile capacità critica a partire dalle fonti. La mancanza di filtri in grado di operare una sorta di selezione tra contenuti di qualità più o meno elevata può infatti disorientare, o peggio ancora farci sbagliare strada. Dovremmo essere capaci di saper distinguere sempre, offline e online, tra chi è davvero portatore di conoscenza e chi è solo produttore di rumore: tra chi, per ritornare a Gramsci, svolge pienamente la sua funzione di intellettuale e chi no. Ritenere che tutti gli esseri umani siano in potenza intellettuali non significa che ciascuno lo sia in atto: perché se tutti sono in grado di comprendere, analizzare e capire grazie alle proprie capacità intellettive, non solo per questo possono essere definiti «intellettuali». Distinguere i ruoli è fondamentale, altrimenti si rischia di porre il sentito dire e il fattuale sullo stesso piano.

Se la disintermediazione ha creato l’illusione distorta che i corpi intermedi siano diventati superflui, al contrario dobbiamo riaffermarne l’indispensabilità proprio per rompere quei meccanismi che trasfigurano donne e uomini in utenti isolati e passivi

L’agorà virtuale offerta dal web rappresenta davvero lo spazio preminente in cui si muove lo zôon politikòn dei nostri giorni? Le persone sulla rete non sono solo degli utenti passivi, né sono atomi isolati. Sono invece parte di una comunità reale che nell’ascolto vede un’occasione di apprendimento, e nella diversità un’opportunità di arricchimento culturale. Sentirsi parte di una comunità significa innanzitutto partecipare con il proprio vissuto e le proprie idee alla costruzione di un racconto collettivo, collaborare insieme agli altri alla sua realizzazione e infine usare la rete per raccontarlo non solo ai membri del proprio gruppo di appartenenza, ma a quante più persone possibili. L’ambizione deve essere infatti quella di creare un effetto emulativo, perché in fondo tutti noi siamo non solo influencer di qualcuno, ma soprattutto nodi di reti immateriali e reali, linee mediane che uniscono punti tra di loro distanti e incomunicabili, spazi virtuali in cui scambiarsi opinioni e informazioni e quindi di conseguenza anche agenti di cambiamento. Destare e organizzare questa consapevolezza è un compito squisitamente politico, come quello che richiede l’impegno nel promuovere una partecipazione attiva e stimolante in rete.

Davanti alla crescente complessità dei nuovi media il disorientamento causato dal parossismo informativo richiama alla mente il mito della caverna descritto da Platone: gli utenti passivi del web ricordano gli uomini incatenati costretti a osservare soltanto le ombre degli oggetti proiettate sulla parete, cosi come oggi chi naviga guarda prevalentemente ciò che scorre sul proprio schermo. Si tratta di un’interpretazione della realtà, di una sua rappresentazione spesso non fedele, di un’opinione, parziale, partigiana, talvolta inesatta o mistificata. Tuttavia, se anche un utente scegliesse la strada della conoscenza e della ragione, se prendesse consapevolezza di sé, se da utente passivo diventasse soggetto attivo liberandosi dal rumore assordante della rete, non verrebbe probabilmente creduto e resterebbe in balia delle minoranze rumorose che si accontentano di un’interpretazione non fattuale della realtà. Ed è proprio questo il ruolo dei nuovi intellettuali nell’era digitale: quello di guidare un processo di coinvolgimento dialettico basato su ragionamento e interpretazione, una missione politica nel far prendere coscienza agli altri della propria condizione. Ed è questo il motivo per cui servono nuovi corpi intermedi, partiti, sindacati, associazioni: il loro scopo non è solo fare da tramite tra individui e società, ma soprattutto permettere a ciascuno di prendere coscienza della propria condizione. In quel caso l’utente «liberato» porterebbe gli altri verso la «luce», nella direzione della verità, sottraendoli uno alla volta ad una condizione passiva per renderli protagonisti di un processo evolutivo, a loro volta diventando in grado di «liberare» altri.

Le capacità dei singoli, seppur notevoli, da sole sono vane. Allora tocca organizzarle e non disperderle, per costruire consapevolezza e renderle utili alla collettività. Se la disintermediazione ha creato l’illusione distorta che i corpi intermedi siano diventati superflui, al contrario dobbiamo riaffermarne l’indispensabilità proprio per rompere quei meccanismi della rete che trasfigurano donne e uomini in utenti isolati e passivi.