di Danilo di Matteo


Non è insolito il ricorso agli strumenti della psicologia al fine di comprendere atteggiamenti e passaggi politici. Il ricorso, soprattutto, alla nozione di “passioni”, intese come spinte cieche e più o meno irrazionali: all’indomani della Bolognina, ad esempio, si disse che molti militanti del Pci erano in sintonia con Pietro Ingrao con il cuore, mentre aderivano alla “svolta” con la testa. Per non parlare di stati d’animo come l’odio o la collera.

Ecco: riflettendo oggi sugli anni Ottanta, quando ero un ragazzo che simpatizzava per il Pci, mi sembra di poter scorgere – non solo in me, bensì in tanti – un’ambivalenza di fondo verso la figura di Bettino Craxi. Un atteggiamento finora scarsamente preso in considerazione o comunque assai sottovalutato. E di tale ambivalenza avevo una certa consapevolezza già allora.

Vi era, per dirne una, un po’ di invidia per quel leader “forte”, dopo che il Pci aveva perso Berlinguer. Un sentimento acuito dalle continue flessioni elettorali, a fronte dell’ “onda lunga” socialista. Vi era poi la percezione, per quanto parziale e non nitida, del declino dell’impero sovietico, e più in generale della labilità degli “appigli” allo scenario internazionale (da Gorbaciov al Terzo mondo). E si era comunque in contatto con la possente modernizzazione in atto nel mondo del lavoro, nelle abitudini di vita, nel costume e nella mentalità: fenomeno di cui si considerava Craxi come il maggior interprete italiano. Non si trattava solo del “riflusso” rispetto agli anni Settanta, quanto soprattutto dell’imporsi di una nuova “rivoluzione industriale”, della fine di un mondo e dell’affermarsi di un altro.

Dinanzi a uno scenario del genere – e qui torna in ballo la psicologia – si preferì non soffrire troppo e reagire in maniera confusa, nebulosa, pasticciata, ricorrendo a sofismi, mezze ammissioni, analisi volte più a salvare capre e cavoli e a contenere l’angoscia che a comprendere davvero gli avvenimenti. Craxi rappresentava in quel contesto la persona che più di tutte obbligava, per certi versi, a prendere atto dei tempi nuovi, dei quali tuttavia, ecco il paradosso, non si voleva prendere atto fino in fondo. E ciò finiva per alimentare l’ostilità nei suoi confronti.

Egli in quel momento si poneva, al cospetto della sinistra nel suo insieme, in una posizione analoga a quella del terapeuta che, magari in modo brusco, evidenzia i “vizi” e i limiti del paziente suscitando l’ira e l’odio di quest’ultimo. Si badi bene: non mi riferisco tanto al disegno politico perseguito dal leader del garofano rosso, quanto a ciò che egli evocava nella mente e nel cuore di molti.

Proprio per questo non pochi militanti del Pci – assai oltre l’area “migliorista” – finivano per subirne il “fascino” e per restarne “sedotti”, loro malgrado. La tradizionale “egemonia” comunista si andava così capovolgendo in una sorta di sudditanza psicologica del Pci, che finiva per alimentare sentimenti di impotenza e di inettitudine e alterava ulteriormente le capacità di analisi lucida e razionale della situazione e di elaborazione politica e culturale.