Carlo Marsili

 

La questione armena è una profonda ferita che ancora divide due popoli comunque destinati – se non altro per motivi geografici – a incontrarsi di nuovo: come nel lontano 1453, anno della conquista turca di Costantinopoli, quando lo stesso sultano Fatih Mehmet consentì la fondazione del patriarcato armeno nella nuova capitale dell’impero ottomano; o nel gennaio 2007, quando le collettività turca e armena in Italia hanno commemorato insieme in Campidoglio il giornalista Hrant Dink, turco di origine armena, assassinato a Istanbul qualche giorno prima.

Basta del resto recarsi a Kars, remota città della Turchia orientale il cui invernale manto nevoso è stato reso famoso dalla narrativa di Orhan Pamuk. Lasciati i tanti edifici dall’indelebile impronta architettonica russa si arriva al sito archeologico di Ani con le sue chiese armene. Al di là del fiume tortuoso che segna il confine tra i due paesi, vent’anni fa invalicabile cortina di ferro tra Turchia e Unione Sovietica, si protrae senza soluzione di continuità lo stesso paesaggio aspro e impregnato di silenzio. Ed è facile comprendere che quella frontiera oggi nuovamente chiusa non potrà che essere un giorno aperta, quando quella lontana ferita si sarà rimarginata.

L’impero ottomano applicava al suo interno il sistema dei millet, che erano in sostanza le comunità religiose semiautonome diverse dalla musulmana, riconosciute dal sultano e libere, dal punto di vista amministrativo, di affidarsi alla guida dei propri esponenti spirituali e di dotarsi di strutture a loro confacenti. Dopo la condanna da parte della Chiesa romana della dottrina monofisita di quella armena, che negava la natura umana di Cristo riconoscendogli solo quella divina, fu il sultano turco a garantire nel 1461 la libertà di culto, e non solo, alla comunità armena. La quale, nel corso dei secoli, non si distinse soltanto per arti, mestieri e commercio, ma fornì alle istituzioni ottomane parlamentari, governatori, diplomatici: basti ricordare, tra i tanti, Gabriel Nouradungian, Ministro degli Esteri nel 1913 all’epoca delle guerre balcaniche.

All’epoca delle riforme propugnate tra il 1839 e il 1876 dalle grandi potenze europee gli armeni restarono inizialmente passivi, guadagnandosi il titolo di “millet fedele” agli occhi del sultano

Il successo commerciale sviluppò peraltro a Istanbul una sorta di classe sociale, denominata amira, inizialmente composta di mercanti ma poi anche di banchieri, che rivestirono un ruolo cruciale nel regolare il sistema di tassazione fondiaria dell’impero (tanto che i Duzian gestirono la zecca) e di costruttori (i Balyan furono capi architetti per un secolo e mezzo tra il Settecento e l’Ottocento, distinguendosi per aver eretto residenze imperiali e palazzi). L’amira ebbe naturalmente una forte influenza anche sul patriarcato di Istanbul, la cui attività fu temporaneamente sospesa solo nel 1916.

La storia degli armeni di Istanbul riguarda peraltro una cerchia numericamente ristretta rispetto a quelli che vivevano nelle province rurali dell’est, per lo più in modeste condizioni. Ma anche per questi, al di là di possibili tentativi di farli convertire all’Islam da parte dei loro vicini curdi e turchi, non si ricordano storicamente persecuzioni di alcun genere. Anzi, all’epoca delle riforme (tanzimat) propugnate tra il 1839 e il 1876 dalle grandi potenze europee (Regno Unito, Francia, Russia), gli armeni restarono inizialmente passivi, guadagnandosi il titolo di “millet fedele” (millet-i-sadika) agli occhi del sultano.

Fu alla conclusione della guerra turco russa (1877-1878) che le organizzazioni armene dell’impero individuarono nella Russia un possibile garante delle proprie condizioni, in particolare di sicurezza, riuscendo a far inserire nel Trattato di Santo Stefano una clausola secondo cui le forze russe di occupazione delle province orientali dell’impero si sarebbero ritirate solo dopo la concreta applicazione delle riforme a favore del millet armeno da parte del sultano ottomano. Il Congresso di Berlino del 1878 non riconobbe tale disposizione, e pur garantendo agli armeni una relativa autonomia si limitò ad attribuire alle potenze europee un generico controllo sull’andamento delle riforme.

Le prime rivolte armene all’interno dell’impero ottomano esplosero verso la fine dell’Ottocento, con la creazione di fronti patriottici tra Van ed Erzurum e con centrali dislocate in Russia e in vari paesi europei. È l’epoca del sultano Abdul Hamid II, sotto il cui regno si registrarono violenze contro gli armeni, specie ad opera di elementi paramilitari curdi, tra il 1894 e il 1896. Violenze apparentemente non direttamente ordinate ma o tacitamente approvate o comunque non impedite, ripetutesi in termini ancor più significativi ad Adana nel 1909.

L’esodo, sotto scorta militare, comportò morti per violenze, per stenti e per fame

Ma quello che gli armeni definiscono genocidio (Medz Ye-ghern, grande male) va storicamente collocato tra il 1915 e il 1917, all’epoca della prima guerra mondiale. Qualche mese prima l’esercito ottomano, alleato delle potenze centrali, aveva subìto una disfatta a Sarikamis, presso Kars, ad opera dell’armata russa del Caucaso, e risulta che unità di volontari armeni si fossero inquadrate in quest’ultima. Nel febbraio 1915 il ministro della Guerra ottomano, Enver Pasha, ordinò che gli armeni facenti parte dell’esercito fossero dismessi e assegnati a reparti non operativi per timore che potessero collaborare con i russi. Qualche mese dopo ebbe luogo una rappresaglia su Van, dove gli armeni avevano creato una sorta di roccaforte autonoma, e cominciarono le prime deportazioni motivate dall’accusa di collaborazionismo con il nemico.

Il 24 aprile di quell’anno, data in cui gli armeni hanno fissato la loro celebrazione nazionale, un certo numero di notabili della comunità di Istanbul vennero arrestati e deportati in centri di raccolta per ordine del ministro dell’Interno Talat, sempre con la motivazione di avere ordito la creazione di uno Stato indipendente in combutta con i russi. Seguirono altri massacri e deportazioni, anche nella provincia di Trebisonda: queste ultime in base a una legge che consentiva di attuarle contro chiunque fosse considerato una minaccia alla sicurezza nazionale. Una successiva legge consentì di procedere alla confisca delle terre abbandonate a seguito della prima.

Va naturalmente tenuto presente per obiettività storica (ancorché qui ci si limiti a sintetizzare i fatti) che l’impero ottomano stava attraversando un periodo di gravi sconfitte militari ed era preso tra due fuochi, quello russo ad est e quello anglo-francese ad ovest. Le deportazioni degli armeni verso la lontana località di Deir-ez-zor (oggi in Siria) e nelle zone limitrofe riguardarono essenzialmente la più numerosa collettività delle province rurali, e non – almeno in termini significativi – quelle che vivevano nelle grandi città di Istanbul, Smirne o della Tracia.

L’esodo, sotto scorta militare, comportò morti per violenze, per stenti e per fame. Ci fu un disegno preordinato di sterminio? O si trattò di misure malamente gestite in cui alla indifferenza e corruzione delle scorte si sommarono gli attachi delle tribù curde contro gli “infedeli”? Testimonianze e lettere di diplomatici e missionari contribuirono all’epoca a dar corpo all’accusa di genocidio, anche se il cosiddetto Blue Book   sul trattamento degli armeni nell’impero ottomano sarebbe stato frutto soprattutto della propaganda britannica dell’epoca. Ma prove documentate che dimostrino inequivocabilmente la diretta determinazione del governo ottomano allo sterminio degli armeni in quanto tali a parere di parecchi storici non risultano esserci.

Sul piano storico l’esistenza o meno di un genocidio degli armeni non incontra l’unanimità

Cause naturali, come carestie ed epidemie, che colpirono armeni e turchi si susseguirono inevitabilmente in quegli anni di guerra. Per di più non può sottacersi che anche parecchi musulmani, sia turchi che curdi, furono uccisi dai miliziani armeni. Alla conclusione della prima guerra mondiale si presentarono a Versailles due delegazioni armene, una su impulso del patriarcato di Istanbul, l’altra in rappresentanza della Repubblica separatista. Ma nel novembre 1919 il Senato degli Stati Uniti respinse il trattato di pace (gli americani peraltro non avevano mai formalizzato una dichiarazione di guerra all’impero ottomano), e l’affidamento fatto dagli armeni sul Presidente Wilson si risolse nel nulla.

Il Segretario di Stato americano Lansing tenne fermo il principio che nessun processo internazionale dovesse essere celebrato nei confronti dei vinti, ma che i crimini di guerra erano di competenza dei singoli Stati. In questo quadro fu lo stesso Parlamento ottomano a creare una commissione per far luce sugli eventi, demandando a varie corti marziali il giudizio. Queste emisero verdetti di condanna anche capitale contro gli autori di crimini riconosciuti durante le deportazioni. Ciò anche ai fini di una sorta di regolamento dei conti interno tra fedeli al sultano e i giovani turchi del Comitato Unione e Progresso, accusati dai primi di attività anti imperiale.

Talat Pasha ed Enver Pasha furono condannati a morte in contumacia. Il primo fu assassinato a Berlino nel 1921 da un armeno (cosiddetta Operazione Nemesis), l’altro ebbe un finale di vita particolarmente avventuroso.  Riparò a Mosca, dopo aver rotto con Atatürk, dove fu bene accolto dalle autorità bolsceviche: tanto che lo stesso Lenin lo invitò nel 1921 a Bukhara, nella Repubblica Sovietica del Turkmenistan, per combattere i rivoltosi contro il governo centrale. Giunto sul posto si accordò invece segretamente con i locali Basmachi inseguendo il suo sogno di unificare il mondo panturco contro i sovietici e riuscendo a costituire una vera e propria armata personale. Nell’agosto dell’anno seguente, tuttavia, il suo contingente subì un attacco di sorpresa da parte della cavalleria dell’armata rossa, guidata da un ufficiale armeno, ed Enver Pasha fu ucciso.

La Commissione sulle responsabilità e sanzioni, presieduta dallo stesso Lansing, si occupò anche della questione armena, mentre nel 1919 144 tra politici, generali e intellettuali ottomani furono condotti nell’isola di Malta, dove rimasero prigionieri per tre anni: alla fine furono tutti rilasciati.

Le successive vicende connesse al Trattato di Sèvres, che sancì l’esistenza di uno Stato armeno, la guerra di indipendenza condotta da Atatürk e il Trattato di Losanna del 1923, che rimpiazzò quello di Sèvres alla luce delle nuove circostanze storiche, chiusero il sanguinoso capitolo della fine dell’impero ottomano e della nascita della Repubblica di Turchia, che approvò un’amnistia generale.

Sul piano storico l’esistenza o meno di un genocidio degli armeni non incontra l’unanimità. Diversi storici – tra cui il più noto studioso inglese di questioni mediorientali, Bernard Lewis –  lo negano. Sergio Romano, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 30 aprile 2011, scrive: “Gli Stati democratici e i Parlamenti non hanno il compito di scrivere la storia. Noi dobbiamo avere invece il diritto di dire – come lo storico Bernard Lewis di fronte a un tribunale francese – che l’espressione ‘genocidio’ non è in questo caso appropriata e che i crimini sofferti dagli Armeni di Turchia nel 1915 erano invece ‘massacri’“.

La definizione giuridica di genocidio   prevede una serie precisa di requisiti. Jerevan lo dà per assolutamente certo, e così la diaspora armena nel mondo. Ankara lo nega, obiettando che non ci furono liste o campi di sterminio, né furono impiegate armi biologiche o chimiche per annientare la comunità, né si ha traccia di pubbliche dichiarazioni del Sultano ottomano dirette contro la collettività armena, né infine i massacri furono mai motivati da alcuna teoria razziale. Essi sarebbero invece avvenuti per cause belliche, legate alle particolari circostanze della guerra contro la Russia e gli anglo-francesi, e quindi per motivazioni ben diverse da quelle di cui furono vittima, ad esempio, gli ebrei nella seconda guerra mondiale.

C’è chi sostiene che la Turchia, nel momento in cui nega il genocidio, non ha fatto i conti con la storia e non avrebbe pertanto raggiunto quella soglia di maturità democratica che le darebbe titolo – ad esempio – per   l’ingresso nell’Unione Europea. Certamente un fenomeno di rimozione collettiva ha avuto luogo, e solo di recente il tema è affrontato con minore emotività. Ma in generale in Turchia prevale la convinzione opposta: senza contare che la memoria non può essere imposta dall’esterno, meno che mai con i decreti legge, ma deve essere frutto eventualmente di una libera scelta, come ha stabilito la Corte Costituzionale francese dichiarando incostituzionale una legge approvata dal Parlamento che lo criminalizzava.

Quel che la Turchia suggerisce, ma la Repubblica armena contesta, è la costituzione di una commissione di storici dei due paesi, sotto l’egida dell’Onu, incaricata di effettuare le ricerche negli archivi sia ottomani che di paesi terzi per giungere a una verità condivisa.

In questi anni una ventina di paesi hanno formalmente riconosciuto il genocidio armeno: tra essi Argentina, Austria, Canada, Cile, Cipro, Francia, Germania, Grecia, Olanda, Russia, Svizzera e Vaticano. Lo stesso Presidente Obama, come ogni presidente americano, si è adoperato per bloccare le iniziative in proposito da parte del Senato americano, e nel commemorare i tragici fatti del 1915 ha omesso la parola” genocidio”, ricorrendo ad altre espressioni. Ciò anche in occasione di ogni altro evento ufficiale.

Sulla stessa posizione parecchi altri paesi, tra cui Regno Unito e Israele. Il Parlamento europeo ha invece proceduto con una risoluzione del 1987: ma quando nel 2005 furono aperti i negoziati con la Turchia per l’adesione all’Unione europea il riconoscimento del genocidio non venne menzionato, e quindi tale condizione non sussiste .

Per quanto riguarda l’Italia, va chiarito che un simile riconoscimento non ha mai avuto luogo da parte del governo. La risoluzione approvata dalla Camera dei Deputati il 17 novembre 2000 recepiva nelle sole premesse e non nel dispositivo un’iniziativa del Parlamento europeo e si limitò infatti ad “adoperarsi per il completo superamento di ogni contrapposizione tra popoli e minoranze diverse nell’area, al fine di creare le condizioni, nel rispetto dell’integrità territoriale dei due Stati, per la pacifica convivenza e la corretta tutela dei diritti umani nella prospettiva di una più rapida integrazione della Turchia e dell’intera regione nell’Unione europea”.

Il che del resto venne ufficialmente ribadito dal ministro degli Esteri dell’epoca, Frattini, con la specificazione che “la strada maestra per affrontare questioni così controverse resta il dialogo tra le parti e l’approfondimento, senza pregiudizi e precondizioni, della ricerca storiografica. Le risoluzioni dei Parlamenti possono utilmente attirare l’attenzione su questa necessità, ma non possono e non devono sostituirsi né ai governi interessati né al lavoro degli storici. Per troppi anni fattori esterni hanno contribuito a determinare lo stato delle relazioni tra Turchia ed Armenia”.

Tale presa di posizione fu resa necessaria da una notizia, diffusa dalla emittente turca NTV, secondo cui anche l’Italia figurava nella lista dei paesi che riconoscevano ufficialmente il genocidio armeno. Qualche giorno dopo, in un editoriale del Corriere della Sera a firma di Antonio Ferrari, si potè leggere: “A noi italiani, nonostante l’amicizia tra Erdoğan e Berlusconi, è andata bene. Infatti qualche giornale, elencando i paesi “cattivi” che hanno riconosciuto il genocidio, aveva inserito anche il nostro. Non è vero. L’Italia non ha mai compiuto il passo. Tuttavia, per evitare equivoci, vista l’aria che tira, la nostra ambasciata in Turchia ha diffuso tempestivamente un comunicato stampa”.

Tuttavia nello scorso mese di aprile una iniziativa della Lega cui si sono associati i Cinquestelle – e, in antitesi con le sue precedenti posizioni, il Partito democratico – ha avuto successo, e la Camera dei Deputati ha riconosciuto il genocidio impegnando il governo a fare altrettanto. Difficilmente quest’ultimo darà seguito: ma la reazione negativa di Ankara è stata immediata, solo attenuata dall’astensione di Forza Italia e del vecchio amico Berlusconi.

Per quanto riguarda gli altri sviluppi meno recenti ma significativi della questione armena, Ankara invitò nel marzo 2005 lo studioso americano Justin McCarthy, esperto di storia ottomana, a tenere una conferenza in seno al Parlamento per controbattere la tesi del genocidio. La sua posizione negazionista indusse sia il governo che l’opposizione ad annunciare un’iniziativa congiunta in due fasi.

La prima consistente nel mostrare che la Turchia non aveva timore di approfondire il passato e proponeva la formazione di commissioni miste di storici per indagare sugli eventi, sotto l’egida di istituzioni internazionali, utilizzando non solo gli archivi ottomani a armeni, ma anche quelli russi, americani e dei principali Stati europei. La seconda si sarebbe esplicata attraverso iniziative tese a confutare tutta una serie di documenti che traggono origine dalla propaganda delle potenze in guerra contro l’impero ottomano e che tuttora vengono utilizzati come riferimento per lo studio della questione armena: tra questi, appunto, il sopracitato Blue Book.

Nei primi mesi del 2006 venne sollevata in Turchia la questione del film dei fratelli Taviani La masseria delle allodole, tratto dal romanzo di Antonia Arslan, che aveva beneficiato di un finanziamento del nostro ministero dei Beni culturali. Il film lasciava indubbiamente ritenere che gli eventi cui faceva riferimento fossero il risultato di un’operazione pianificata nei dettagli dalle autorità ottomane, i cui architetti principali sarebbero stati proprio i “giovani turchi”: vale a dire alcuni di quegli ufficiali nazionalisti e rivoluzionari che affiancarono successivamente Atatürk nella fondazione della Repubblica.

In realtà il contributo ministeriale alla pellicola venne assegnato in base a criteri di ordine artistico e l’intenzione dei registi era quello di creare un’opera scevra da strumentalizzazioni: ma il timore turco di una ricaduta negativa per il loro paese era pur sempre comprensibile. Non fu comunque un problema nell’ambito delle relazioni bilaterali: intanto per l’ovvio motivo che l’espressione artistica è libera, e poi anche perché il film non registrò un successo di pubblico.

La Turchia è sempre particolarmente sensibile alla questione armena e ne segue con attenzione, attraverso la rete diplomatica, gli sviluppi nei vari paesi. Altrettanto, naturalmente, fanno gli armeni, che dispongono di un minor numero di ambasciate ma di lobby ben più agguerrite ed influenti sugli organi di informazione locali. E’ il caso, in particolare, di Francia, Argentina e Stati Uniti.

In Italia alcuni consigli comunali hanno approvato risoluzioni sul genocidio. A Roma è stata intitolata una piazza, priva peraltro di numeri civici trattandosi di un parco pubblico, ai martiri del genocidio armeno: ma ciò rientrava nella titolarità della circoscrizione e il sindaco non poteva bloccare l’iniziativa.

Si dovette attendere il 6 settembre 2008 per un vero e proprio colpo di scena, con generale apprezzamento internazionale (e qualche mugugno solo dagli ambienti nazionalisti). Su invito del Presidente armeno Sarkisian il Presidente turco Gül si recò a Jerevan per assistere alla partita di calcio Armenia-Turchia, valida per le qualificazioni alla Coppa del Mondo 2010. Si inaugurava così la versione calcistica della “diplomazia del ping-pong” degli anni Settanta. Era la prima volta che un presidente turco si recava in Armenia, paese con cui la Turchia non aveva relazioni diplomatiche dal 1993, pur essendo stato uno dei primi a riconoscerla nel 1991, dopo la proclamazione dell’indipendenza.

Tra Ankara e Jerevan, tuttavia, pur in assenza di relazioni diplomatiche, i contatti non erano mai venuti meno. Quando la Turchia diede vita all’organizzazione della cooperazione economica del Mar Nero l’Armenia venne invitata come membro fondatore e un diplomatico di quel paese prese servizio presso la sede dell’organizzazione a Istanbul. I corridoi aerei tra i due paesi sono rimasti aperti e tra Istanbul e Jerevan vi sono collegamenti bisettimanali. Il trasporto su strada è aperto, nel senso che i veicoli commerciali che passano attraverso la Georgia o l’Iran per andare in Armenia possono transitare per la Turchia. Nei fatti sussistono anche scambi commerciali bilaterali e parecchie migliaia di cittadini armeni lavorano e vivono in Turchia. Inoltre si sono verificati scambi significativi a livello di società civile e nel settore culturale.

Tornando alla visita del presidente Gül, definirla storica non sembra eccessivo. Certo, il contenzioso non poteva essere risolto nelle due ore di colloqui che precedettero la partita (vinta, per la cronaca, dalla Turchia): ma dal punto di vista simbolico l’effetto fu straordinario. Se Sarkisian aveva rinunciato fin dal dicembre 2006 al riconoscimento turco del cosiddetto genocidio come precondizione allo stabilimento di normali relazioni diplomatiche con Ankara, restavano tuttavia i problemi connessi all’occupazione del Nagorno- Karabakh e al mancato riconoscimento dei confini da parte di Jerevan (una parte della Turchia orientale continua a essere definita Armenia occidentale nella Costituzione armena): senza contare il richiamo simbolico al monte Ararat che si trova in territorio turco.

In ogni caso l’atteggiamento conciliante tenuto dalla leadership armena, non sempre all’unisono con la diaspora, nonché il favore con cui lo stesso Sarkisian aveva salutato l’iniziativa turca per una “piattaforma di stabilità e cooperazione nel Caucaso”, nonostante Ankara lo avesse tenuto fuori dai colloqui iniziali, contribuirono al successo dell’iniziativa.

La diplomazia del pallone proseguì con la visita di Sarkisian a Bursa, il 14 ottobre 2009, in occasione del girone di ritorno dell’incontro tra le due squadre. Anche in questa occasione ebbe luogo un cordiale scambio di idee con Gül: ma nel frattempo si erano già registrate alcune iniziative che andavano nel senso dell’auspicata riconciliazione.

Nel precedente mese di aprile, infatti, proprio alla vigilia della ricorrenza armena, i due ministeri degli Esteri rilasciarono un comunicato congiunto in cui annunciavano di aver eleborato una strategia per la normalizzazione dei rapporti. Nel comunicato, emesso sotto gli auspici della Svizzera che agì da mediatrice, si leggeva che i due paesi avevano “lavorato intensamente in vista dello stabilimento delle relazioni bilaterali e al fine di svilupparle in uno spirito di buon vicinato e mutuo rispetto”. Si sottolineava inoltre il “raggiungimento di tangibili progressi e di una reciproca intesa”.

Seguì, a fine maggio, la visita di Erdoğan a Baku, con tanto di solenne discorso al Parlamento azero per riparare in qualche modo la tensione insorta a causa del riavvicinamento con l’Armenia, malamente accolta dall’Azerbagian. Non era evidentemente solo questione di fratellanza etnica, ma anche di concreti interessi strategici tra Ankara e Baku, vitale quest’ultima per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici della Turchia.

Il successivo 10 ottobre, a Zurigo, i due ministri degli Esteri firmarono, un po’ soffertamente e con un minimo di ambiguità circa l’interpretazione da darne, i protocolli intesi a concretizzare la prospettiva di allacciare le relazioni diplomatiche e riaprire la frontiera comune. L’ambiguità consisteva principalmente, ma non solo, nell’omissione dalla dichiarazione finale di un riferimento sia pure indiretto sull’opportunità di superare il contenzioso armeno-azero nel Nagorno-Karabakh, nonché l’assenso a istituire una commissione di storici per fare luce sul genocidio.

A ciò si aggiunse, qualche mese dopo, la sentenza della Corte Costituzionale armena, cui era stato fatto ricorso, che suscitò reazioni molto negative ad Ankara. Il ministero degli Esteri turco sostenne infatti in una nota che tale sentenza aveva introdotto precondizioni e restrizioni contrarie alla lettera e allo spirito dei protocolli. In particolare il passaggio che aveva maggiormente irritato Ankara era quello in cui la Corte stabiliva che i protocolli non potevano essere interpretati e applicati in modo da contraddire quanto previsto dal preambolo della Costituzione e dal paragrafo 11 della Dichiarazione d’indipendenza della Repubblica Armena.

Quest’ultimo afferma “l’impegno per il riconoscimento internazionale del genocidio del 1915 nella Turchia ottomana e nell’Armenia occidentale” (che, per inciso, è territorio turco ai sensi del Trattato turco-sovietico di Kars). Inoltre la stessa sentenza sottolineava il carattere strettamente bilaterale delle intese con la Turchia, in tal modo eliminando ogni possibile legame tra il processo di normalizzazione turco-armeno e la soluzione del contenzioso sul Nagorno- Karabakh.

A questa sentenza fece seguito uno scambio polemico tra i due ministri firmatari degli accordi di Zurigo, Davutoğlu e Nalbandian. Intervenne anche Erdoğan, che ribadì l’inaccettabilità per la Turchia delle condizioni poste dalla Corte Costituzionale armena ed espresse quindi preoccupazione per il futuro del processo di normalizzazione. Facile previsione, giacchè nell’aprile 2010 l’Armenia congelò il negoziato e nello stesso senso si mosse la Turchia.

Difficile dire, ora, quando si riaprirà la finestra di opportunità. Il dubbio non sta nel se, troppi essendo gli interessi di entrambe le parti a sbloccare le intese, ma sul quando verrà a crearsi. Nel frattempo la situazione resta congelata. A Kars, nel momento del riavvicinamento, era   stato eretto su impulso del sindaco un gigantesco monumento che raffigurava un abbraccio stilizzato tra due forme femminili rappresentanti Turchia ed Armenia. Erdogan lo definì brutto e lo zelante sindaco che seguì lo fece abbattere. Nell’attuale lunga situazione di stallo non c’è posto neppure per i simboli.