Nel Mediterraneo, da qualche anno, è in corso uno stravolgimento dalle pesanti implicazioni: le potenze della regione si sono fatte assertive. Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Emirati arabi non sono più gli alleati docili dell’Occidente, che in cambio di un silenzio ipocrita sulla repressione interna e sul sistema autoritario di governo, non mettevano mai in discussione gli obiettivi egemonici dell’Occidente nella regione.
Anche in conseguenza della riconfigurazione in atto dopo le Primavere arabe, hanno una propria agenda regionale che perseguono senza risparmio di mezzi e con aggressività crescente: il conflitto siriano è stato di fatto uno scontro per procura tra i paesi della regione, così come lo è la tragedia allo Yemen. La vicenda libica è una riedizione del confronto tra Islam politico e autoritarismo militare autoproclamatosi laico. Gli interventi per puntellare la giunta militare in Sudan, per orientare la transizione algerina, per orientare le convoluzioni libanesi sono altrettante versioni della stessa questione: le potenze della regione si stanno sfidando.
Quello che accade non è solo la conseguenza dei vuoti lasciati dal crollo del regime siriano e del regime di Gheddafi. Vi sono importanti spinte endogene. Per Erdogan e Al Sisi l’attivismo in politica estera è uno strumento vitale per puntellare i rispettivi regimi, sempre più stretti in una difficile situazione interna tra crisi economica latente e contestazioni. Gli Emirati e l’Arabia saudita puntellano il regime di Al Sisi in chiave anti-turca. Per l’Iran il crescente coinvolgimento in Iraq, Siria, Yemen ha avuto la funzione di aprire spazi a un paese costretto dalle sanzioni e in pesante crisi economica.
C’è poi stato un cambiamento dell’atteggiamento che le potenze mondiali hanno nei confronti della regione: al disimpegno degli Stati Uniti di Donald Trump hanno risposto le crescenti mire strategiche della Russia e persino della Cina, interessata allo sbocco di una delle rotte della Via della seta. Infine le recenti scoperte energetiche nel Mediterraneo orientale hanno aggiunto un ulteriore elemento di complessità: se da un lato hanno permesso di avviare fruttuose cooperazioni che stabilizzano i rapporti tra alcuni paesi della regione (penso ad esempio a Israele e l’Egitto), dall’altro rischiano di essere il detonatore di ulteriori tensioni tra la Turchia e l’Egitto.
E’ chiaro che in questo contesto si aprono innumerevoli interrogativi per la politica estera del nostro paese. L’Italia ha da sempre nel Mediterraneo uno dei tre focus dell’interesse nazionale. Quello che succede nel Mediterraneo ha dirette ripercussioni sulle dinamiche italiane sia dal punto di vista della sicurezza nazionale che della sicurezza energetica e delle dinamiche migratorie. Tradizionalmente la politica estera italiana, ancorata nella prospettiva europea e transatlantica, promuoveva relazioni proficue con tutti i paesi della regione, favorendo così la pace e la stabilizzazione del Mediterraneo. Negli ultimi anni l’Italia ha però perso la bussola e si è troppo spesso trovata spettatrice degli eventi, tagliata fuori dalle dinamiche interne ai paesi e insidiata da troppe parti.
Le ragioni sono molteplici: il generale disinteresse dell’opinione pubblica e dei media italiani rispetto alle dinamiche internazionali, la perdita di capacità di influenza di molte potenze medie, tra cui anche il nostro paese, che si sono riscoperte piccole potenze alle prese con dinamiche sempre più globali, la confusione tra politica estera e politiche migratorie promossa da una certa cattiva politica, la tradizionale e mai abbastanza criticata turnazione dei governi (e dei ministri degli Esteri, che sono stati 4 negli ultimi 5 anni). Ma mentre alcuni paesi europei, a partire dalla Francia e dalla Germania, hanno reagito ai dati di fondo con la capacità di programmare la politica estera e favorire nuove iniziative internazionali, l’Italia non ha fatto altrettanto.
Il risultato è che tra il 2018 e il 2019 abbiamo di fatto perso una gran parte della possibilità di influenzare quello che succede in Libia; che fatichiamo a trovare una modalità di relazione con Turchia e Egitto, e nei confronti di questi paesi alterniamo proclami o azioni dimostrative che nascondono a malapena la necessità che abbiamo di avere con essi rapporti stabili e ben definiti. Insomma, ci serve una bussola.
Cosa si può fare? Prima di tutto la politica italiana deve riconoscere che nel Mediterraneo le cose sono cambiate, e che se vogliamo pesare come potenza regionale dobbiamo trovare risposte originali e contro corrente alla domanda su come si favorisce la stabilizzazione nell’area: certamente non illudendoci che le cose possano tornare al prima, anche dopo le elezioni presidenziali americane. Non basta neanche accettare la rassicurante spiegazione secondo la quale i dittatori laici offrono un sicuro bastione contro gli integralismi. Questo schema non regge più a causa delle trasformazioni demografiche, economiche e sociali di quei paesi dove le dittature raccontano di controllare meglio il dissenso.
In secondo luogo l’Italia dovrebbe favorire, stimolare, incoraggiare prese di posizione europee che siano avanzate e unitarie. Le differenze di potere tra paesi europei e attori regionali si sono molto accorciate: alcuni dei paesi della regione sono molto più pronti e tonici per affrontare iniziative di politica estera di quanto non lo siano alcune potenze europee. Se vogliamo tornare a indirizzare le dinamiche regionali del Mediterraneo bisogna saper giocare come attore unico europeo. Non basta più essere l’Italia o la Francia, con il prestigio e il potere di potenza che ne derivava prima delle Primavere arabe. Infine, bisogna aprire gli occhi di fronte al fatto che nessun pasto è gratis, soprattutto in politica estera: e che per assicurare la promozione dell’interesse nazionale serve investire risorse e pagare il prezzo delle nostre scelte.
La politica estera è da tempo l’area meno finanziata della nostra spesa pubblica, e le decisioni sull’uso dello strumento militare sono spesso frenate da discussioni politiche tutte concertate sugli effetti interni. Finché non inizieremo a guardare al mondo e a investire sulla politica estera resteremo ai margini di quello che avviene nel Mediterraneo.