di Luigi Covatta

Ci sono molti modi per ricordare Franco Cordero, scomparso l’8 maggio. La pigrizia dei giornalisti lo ha inchiodato all’invenzione del termine “Caimano”: ed effettivamente negli ultimi anni la polemica antiberlusconiana ha rappresentato il porro unum della sua attività pubblicistica. Ma nella sua biografia non mancano altri aspetti meritevoli di riflessione: a cominciare dalla sua espulsione dall’Università Cattolica, nel 1972, su richiesta dell’autorità ecclesiastica. Allora la Corte costituzionale gli diede torto: ma da allora ci si può chiedere quale sia lo statuto effettivo di quell’ateneo, che pure gode del sostegno finanziario dello Stato, ed in che misura al suo interno venga riconosciuta la libertà d’insegnamento.

Del resto della sua libertà intellettuale posso dare testimonianza personale. Fu tra i pochi giuristi, nel 1983, a sostenere il disegno di legge sulla dissociazione dal terrorismo che venne presentato con la firma di Franco Bonifacio e Francesco De Martino, oltre che con la mia: non gli sfuggiva l’iniquità di una legislazione premiale che concedeva benefici ai “dichiaranti” (cioè ai capi e capetti del movimento eversivo che avevano qualcosa o qualcuno da denunciare), e lasciava invece in carcere i gregari, che non avevano nulla da dichiarare perché nulla sapevano dell’organizzazione compartimentata del terrorismo.

Il caso ha voluto che Cordero ci lasciasse il giorno prima dell’anniversario dell’assassinio di Aldo Moro: evento quest’anno oscurato dalla coincidenza con la liberazione, a seguito di trattativa, della cooperante Silvia Romano. Non solo per questo, però, ma perché il Cordero migliore è stato quello che cantava fuori dal coro, lo voglio ricordare citando il commento al film di Marco Bellocchio Buongiorno notte pubblicato sulla Repubblica dell’11 ottobre 2003.

Cordero comincia contestando “la colpa dello Stato nell’avvenimento che insanguina via Fani”: bisognava proteggere uno statista molto esposto, ma “quanto male vi provvedessero i responsabili consta dall’assurda strage”. Comunque, “non l’hanno protetto; sta in mano ai sequestratori; lo salvino”, invece di autorizzare “il dubbio che non lo cerchino”.

Quanto poi ai virtuosi che si negano al negoziato, “commettono una cosiddetta ignorantia elenchi: vizio piuttosto diffuso che consiste nell’evadere dai termini della causa”, che non riguardava un riconoscimento politico non richiesto ma uno scambio di prigionieri. E dimenticano che negoziare non significa rinunciare alla punizione: Giulio Cesare prima paga il riscatto, e poi, libero, “arma una piccola flotta, insegue i rapitori, li cattura e li impicca”.

Poi c’è l’aspetto etico: “i santoni” che “lo seppelliscono vivo” per fare “gli eroi sulla pelle altrui”, stabilendo che “deve morire perché sono morti cinque: le mort saisit le vif, discorsi degni delle Erinni, spiriti infernali incombenti su Oreste prima che Atena li addomestichi”. La quale Atena, “dea protoilluminista”, dei cinque della scorta avrebbe detto: “Avevano un compito, difenderlo dalle aggressioni; non era comoda sinecura; sia colpa loro o dei superiori, non l’hanno adempiuto; riposino in pace; salvate lui, piuttosto”.

Infine l’aspetto politico: pretendere il rilascio senza condizioni invece di trattare uno scambio offriva alle Br l’occasione di acquisire “un enorme prestigio”, perché “una mossa da signori benevoli vale più di ogni riscatto”.