Gli anni Sessanta si aprivano, fra l’altro, con la “nuova frontiera” di J. F. Kennedy: “Al di là di questa frontiera si estendono i domini inesplorati della scienza e dello spazio, dei problemi irrisolti della pace e della guerra, delle sacche di ignoranza e di pregiudizi non ancora debellate”. E, quasi a conclusione di quel decennio, l’uomo sbarcava sulla luna.

Certo, la competizione fra Usa e Urss ha rappresentato un aspetto fondamentale della conquista dello spazio. In entrambi i campi, in ogni modo, dominava la fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”.

Non pochi osservatori, cinquant’anni dopo, notano come vi sia un qualche risveglio d’interesse intorno alle imprese spaziali: vi sono progetti volti a “colonizzare” proprio la luna, ad esempio, o a esplorare meglio Marte. Progetti, tuttavia, circondati da un’atmosfera un tantino malinconica: l’idea di una o più “colonie spaziali” è infatti legata, in maniera più o meno sotterranea, alla consapevolezza dei limiti delle risorse del nostro pianeta, alla prospettiva della desertificazione di sue aree sempre più vaste, alla minaccia degli sconvolgimenti del clima e dell’ecosistema. Senza con ciò voler essere apocalittici, i tradizionali modelli di sviluppo paiono inadeguati e pericolosi, ma facciamo fatica a superarli, pur non mancando stimoli e suggestioni in tal senso (dall’economia circolare alla green economy). Per non dire del nesso intimo e profondo, anche se sofferto e mai scontato, fra libero mercato, democrazie liberali, libertà tout court, diritti.

Insomma: ieri la luna evocava le realizzazioni tecniche e scientifiche degli esseri umani, la loro capacità organizzativa. Oggi sembra porci dinanzi a un rompicapo: vogliamo conquistarla per fuggire? Davvero potremo eludere le nostre responsabilità rispetto al globo terrestre? Siamo proprio certi che esista “un altrove” dove rifugiarci o piuttosto si tratta di una chimera, di un’illusione, di un’utopia?

L’ebbrezza di ieri, dunque, ha lasciato il posto ai dubbi e al disincanto. Ora il nostro satellite naturale, più che inorgoglirci, ci dà da pensare.