Nella mia adolescenza non c’era la TV; c’era la radio che spernacchiava e richiedeva particolare perizia per la sintonizzazione.
Le partite di calcio o il giro d’Italia si seguivano al Bar Savo e ci si appassionava.
La squadra del cuore era il Napoli, ma già allora non mi fossilizzavo sul localismo. Piansi per la tragedia di Superga e ancora oggi ricordo una parte della composizione della squadra del Torino.

Nella mia lista dei grandi calciatori dell’epoca non potevo non includere Gianpiero Boniperti; mai, però, avrei mai potuto immaginare di incontrarlo e di trattenermi con lui gradevolmente in età adulta.
Accadde nel 1986, quando, da Parlamentare europeo, una mia proposta di risoluzione fece notizia e mi ritrovai ad essere intervistato in prima pagina della Gazzetta dello Sport. Ponevo il problema del terzo straniero, sostenendo che il calciatore era un lavoratore dipendente e non ci potevano essere limitazioni all’inserimento nelle squadre dei vari Paesi europei per chi fosse nato in uno di essi. Le quattro libertà fondamentali di libera circolazione (persone, servizi, merci e capitali) del processo di integrazione europea erano già vigenti e applicate; nulla quindi ostava a che un francese o un belga o chi altro potesse essere a pieno titolo nell’organico di una squadra italiana.

Mi raggiunse a Bruxelles una telefonata di Boniperti, che, all’epoca era già presidente o un alto dirigente della Juventus, che si congratulò con me e mi invito ad una visita a Torino nella sede della squadra.
Ci andai con molto entusiasmo, anche se, appena accomodato su una poltrona, ci tenni a spiegare che non ero un tifoso della Juventus, anche se ammiravo la squadra e avevo sempre apprezzato la sua personale bravura.
Boniperti mi riservò un’ospitalità squisita, mostrando una buona conoscenza della mia storia sindacale; io lo compensai con il richiamo di alcune sue performance calcistiche eccezionali, su cui ero stato preparato a dovere dal mio straordinario collaboratore dell’epoca, dr. Giovanni Bracco.
Mi trattenne a colazione e, al momento del saluto, volle regalarmi un portachiavi in oro della Juventus.
Sul volo mensile da Roma a Strasburgo cominciai a esibirlo al collega e amico Sergio Segre, uomo della Resistenza, giornalista di valore, eletto nelle liste del PCI.

Disputavamo animatamente sulla grande ingiustizia di cui si sentiva vittima; Maurizio Valenzi sosteneva che Boniperti aveva capito tutto e aveva cominciato a risarcire i meridionali delle rapine piemontesi post-unificazione.
Accadde un evento straordinario; il 10 maggio 1987 il Napoli vinse lo scudetto.
Sul solito areo noi parlamentari meridionali facemmo il massimo della confusione, sfottemmo, cantammo e Sergio divenne la vittima designata.
Al momento dell’atterraggio, mi resi conto che avevamo esagerato e decisi di tirare dalla tasca il portachiavi e di regalarlo a Sergio, ovviamente al canto di “Chi h’avuto, h’avuto, h’avuto; chi ha rato, ha rato, ha rato, scurdammoce o passato…simm’ ‘e Napule paisà”.

Ho voluto raccontare questo aneddoto personale per ricordare una bella persona che non avrei mai pensato di incontrare e con la quale si stabilì un rapporto di cordialità e per inviare un saluto all’amico e compagno Sergio Segre, ricordando l’impegno comune a realizzare, almeno nella dimensione europea, il riavvicinamento tra socialisti e comunisti.