La gran parte degli osservatori ritiene che questo momento per il nostro paese rappresenta la grande occasione per dare una sterzata decisiva ad una pratica immobilista, pigra e nello stesso tempo ciarliera che da lungo tempo caratterizza la nostra politica. Il Piano di ripresa e resilienza è stato presentato alla Commissione Europea nei tempi stabiliti e ottenuto anche una sostanziale approvazione sia pure informale da parte della Commissione stessa. Alla base del Piano sono indicate quattro fondamentali riforme, quelle della giustizia, dell’amministrazione pubblica, della semplificazione normativa, della promozione della concorrenza. Le aree di intervento, in conformità alle linee tracciate dal programma Next Generation EU, sono sei: la transizione verde, la trasformazione digitale, la crescita sostenibile e inclusiva, la coesione sociale e territoriale, la salute, le politiche per le nuove generazioni. Infine, il Piano raggruppa in 6 missioni le 16 componenti che costituiscono il terreno su cui organizzare i progetti di investimento. Le missioni più significative riguardano la transizione digitale e quella ecologica, senza sottovalutare l’esteso programma infrastrutturale, gli interventi di potenziamento della ricerca e della formazione, le politiche di coesione e inclusione e quelle di tutela della salute. Le risorse sono allocate ad ogni singolo intervento e il dettaglio, molto articolato, facilita il monitoraggio e il controllo dell’attuazione del Piano. Si può affermare, ad un’attenta lettura del documento, che non c’è settore della politica economica e sociale che sia stato trascurato. Non ci sono squilibri e carenze del nostro sistema economico e sociale che non siano passate sotto la lente dei tecnici. Del resto la pesantezza del generale arretramento del nostro paese rispetto agli altri era nella consapevolezza e nella preoccupazione delle autorità europee. La pandemia ha solo aggravato e drammatizzato una situazione di ritardi non più tollerabili in svariati settori, ma ha anche rappresentato l’occasione per un cambio radicale di indirizzi e programmi.

Tornando al Piano il punto vero non riguarda la bontà del documento bensì la capacità dell’esecutivo e dell’intero apparato amministrativo di trasformarlo in fatti concreti in una percentuale accettabile. Quale che sarà il grado di realizzazione del Piano, c’è da riconoscere che si è fatto quanto di meglio permettesse la situazione politica sia nel costruire una maggioranza ampia a sostegno del Governo, sia nella composizione dell’esecutivo, a partire dal Presidente. Il nucleo di ministri più coinvolto nella costruzione ed esecuzione del Piano è formato da professionisti di alta professionalità e competenza, in grado di elaborare in proprio e senza le cosiddette collaborazioni tecniche le soluzioni di eventuali problemi emergenti. Dato dunque per scontato che il Governo è all’altezza dei difficili compiti realizzativi, vale la pena di porre attenzione a due questioni. La prima riguarda la transizione energetica che si basa sulla decarbonizzazione, lo sviluppo delle fonti rinnovabili e un ruolo rilevante da assegnare all’idrogeno verde. Siamo il paese che spenderà di più per realizzare questo obiettivo. Ma c’è un particolare. Per ottenere l’idrogeno verde, il processo produttivo di questo propellente ecologico, l’elettrolisi, richiede l’impiego di forti quantità di energia elettrica. Nel Piano è scritto che l’energia occorrente per produrre l’idrogeno sarà ricavata da fonti rinnovabili. Il Ministro Cingolani ha parlato della necessità di istallare 70 CW di potenza da eolico e fotovoltaico. Si tratterebbe di coprire vasti territori di pannelli solari e coprire di torri eoliche i nostri crinali, con la paradossale conseguenza di danneggiare in modo grave e irreparabile il paesaggio, sottraendo territorio all’agricoltura. Non si fa cenno nel documento all’eventuale impiego dell’energia nucleare, prodotta con tecnologie innovative. La Francia ha proposto alla Commissione Europea che l’energia prodotta da piccoli reattori nucleari, di nuova generazione, grandi come un container, trasportabili, di potenza di 2-300 MW, sia assimilata a quella verde, come del resto si fa negli Stati Uniti. Si tratta degli SMR (Small Modular Reactors) che sono privi di emissioni e consumano il combustibile fino al suo quasi totale esaurimento, senza creare sostanzialmente problemi di scorie. Al riguardo il Ministro, che è uomo di scienza, ha manifestato disponibilità a prendere in considerazione l’utilizzo di energia nucleare di nuova generazione, ma sembra che esista tra le forze politiche della maggioranza una posizione pregiudizialmente contraria.

La seconda questione appare molto più importante e riguarda l’accumulo considerevole di debito che l’intera politica economica di contrasto alla pandemia, ivi compreso il Piano, comporta. I dati sono molto eloquenti. Il disavanzo, che nel 2019 era pari all’1,6% del PIL, quest’anno sfiorerà il 12% e nel 2024 non sarà in grado di rientrare nemmeno sotto il 3% (parametro fissato nel trattato di Maastricht) e si fermerebbe al 3,4%, posticipando negli anni successivi il processo di riduzioni ulteriori. Ancora più pesante appare l’andamento del rapporto debito/PIL che alla fine del decennio si porterebbe solo al livello segnato prima della pandemia, vale a dire a circa il 135% del PIL, dopo aver raggiunto quest’anno il 159,8%, sempre secondo le previsioni del Tesoro. Nulla da dire ovviamente sull’eccesso di disavanzo e debito creato nel biennio ‘20-‘21.

Fare debiti era assolutamente necessario per sostenere le famiglie e le imprese colpite duramente dalla pandemia. Desta qualche perplessità il permanere di alti disavanzi anche per gli anni successivi al ‘21, periodo nel quale si ipotizza il ripristino totale delle attività economiche e una apprezzabile ripresa economica. In particolare la spesa, che nel 2019 ammontava a mrd 870,6, aumenta nel 2021 di oltre 120 miliardi portandosi a 992 miliardi, e resta sostanzialmente a quel livello negli anni successivi. Si potrebbe osservare che la spesa viene sospinta in quegli anni dai maggiori investimenti del PNRR, ma il maggior flusso delle spese per investimenti si commisura intorno all’1 del PIL che corrisponde ad una maggiore spesa di meno di 20 miliardi e non sembra giustificare l’alto livello della spesa complessiva.

Occorrerà dunque esercitare un maggior controllo sulla spesa corrente e non coltivare eccessive illusioni di riduzione della pressione fiscale al fine di ottenere un rientro più rapido del disavanzo a livelli analoghi a quelli del 2019 e dare cosi segnali rassicurativi ai mercati.

Molti osservatori ed esponenti politici danno la sensazione di sottovalutare i rischi che l’alto debito potrebbe alimentare nei prossimi anni. Intanto si avvertono segnali di ripresa dell’inflazione, già in atto degli Stati Uniti dove attualmente il tasso tendenziale dei prezzi al consumo supera il 4%. Se in Europa cessa il pericolo pandemico e l’inflazione, sospinta dalla ripresa economica, si porta a livelli superiori al 2%, questa situazione potrebbe indurre la BCE a chiudere il periodo del “quantitative easing”, rendendo così per noi molto più caro il servizio del debito. Insomma ben venga la maggiore spesa per investimenti che in qualche modo viene ammortizzata con la maggiore crescita che essa stessa crea. Il controllo dovrà riguardare la spesa corrente sulla quale il livello di attenzione da parte dei partiti politici, in questo periodo, sembra notevolmente sceso.