Paolo Raffone

In un bel saggio intitolato Postcristianesimo? Angelo Scola si interroga sulle sfide “dell’uomo di oggi che, anche in forza delle ultime scoperte della tecnoscienza, si trova sospeso tra l’affermazione di Pascal (Pensieri), secondo cui per sua natura l’uomo supera infinitamente se stesso, e quella di Nietzsche (Così parlò Zarathustra), con l’ingiunzione all’uomo di andare oltre se stesso verso la tragica abolizione del soggetto”. Il ventennio a cavallo del Millennio è stato caratterizzato da una fase di narcisismo individualista, che in politica si è proposto con il leaderismo e il personalismo sfociati poi nella superbia, credendo di trovare in sé quel che si credeva già di sapere: “La politica oggi tende a vivere solo di sondaggi d’opinione, piegandosi a un modello culturale secondo cui ai desideri di emancipazione, espressività e successo deve seguire il conseguimento di gratificazioni immediate, secondo la logica del carpe diem che è figlia di sentimenti ambivalenti di onnipotenza e insicurezza”.  In questo quadro l’autore segnala che “il travaglio presente investe l’uomo nel suo intimo (la coscienza di sé), nella sua espressione (il linguaggio) e nel suo desiderio (rapporto sociale). Sembra essere svanita, come in un sogno, la possibilità di un’ipotesi esistenziale che ci renda capaci di interpretare unitariamente la realtà che viviamo”. È la “speranza”, conclude Scola, che può “trasformare il travaglio in occasione di nuova nascita”. Rinascita, appunto, che, avrebbe scritto Togliatti, “è l’inizio di rinnovamento in tutti i campi dell’attività intellettuale e culturale”.

Partendo da queste premesse ho indagato sui dilemmi odierni e sulle trasformazioni rapidissime che sotto i nostri occhi si stanno manifestando nelle individualità, nelle gruppalità, e sugli effetti metapolitici, organizzativi ed operativi nelle nostre società. Le “tecnoscienze” evocate da Scola sono una realtà già esistente e il cui impatto è strutturale. Conviene capire bene, e per tempo, di cosa si tratta. Ispirato da quanto scriveva Gramsci (“l’egemonia si costruisce sapendo cogliere gli elementi di verità che sono contenuti nella visione degli altri”), ho accettato la sfida. Alla fine di questo breve saggio elenco alcune letture che hanno contribuito a questo percorso.

Intelligenza, conoscenza, coscienza e soprattutto capacità relazionali aggregative e interattive sono le caratteristiche che la specie umana dei Sapiens ha sviluppato e affinato sin dai tempi della Rivoluzione cognitiva, circa 70.000 anni fa. La dominanza planetaria di questa specie si è affermata in modo definitivo circa 12.000 anni fa con la nascita delle società sedentarie – dedite più all’agricoltura che alla caccia – le quali hanno creato un sistema immaginario fondato su miti e gerarchie che ha permesso aggregazioni sempre crescenti di individui. L’espandersi di sempre crescenti aggregazioni di individui ha reso necessario sviluppare sistemi fondati su un ordine immaginario che, pur diverso nelle rappresentazioni delle varie epoche, ha conservato nei millenni tre caratteristiche costanti: intrinseco al mondo materiale; capace di plasmare i desideri umani; intersoggettivo.

Un ordine immaginario crea un insieme di regole reali, come la tradizione, che promuovono lo sviluppo del conformismo per cui ogni individuo può sentirsi integrato nella gruppalità. I sentimenti intensi di conseguimento e attrazione degli individui per appagare un proprio bisogno fisico o spirituale sono indirizzati e normati da rappresentanti delle forze naturali o sovraumane, siano essi capi tribù, re, imperatori, capi religiosi oppure autocrati, dittatori, rappresentanti eletti dal popolo. Patriottismi, nazioni e nazionalismi hanno ampiamente costruito una narrativa che si voleva radicata in antiche “tradizioni” e simbologie. Dalla seconda metà del XVIII secolo è prevalso un nuovo ordine immaginario: la “modernizzazione”. L’assunto, che è valido fino ai nostri giorni, è che le precedenti forme di gruppalità e le corrispondenti strutture dell’autorità, e quindi le tradizioni ad esse associate, non essendo adattabili divengono obsolete, ed è solo la “modernizzazione” che crea “nuove tradizioni” giuste e corrispondenti alla realtà e ai bisogni del momento. Gli esempi potrebbero essere molteplici. Il più interessante, ci sembra, è la “speranza secolarizzata” rappresentata dalla “mobilità sociale” (il futuro-movimento) che strutturatasi anche in ideologia ha vinto sulla più antica “lotta di classe” (il futuro-essere) instillando i nuovi valori in ogni cittadino senza in nulla scalfire la struttura sociale gerarchica e l’ineguaglianza.

Alla fine si crede coscientemente in ciò in cui tutti gli altri credono

L’ultima caratteristica, l’intersoggettività, esiste da sempre all’interno delle reti comunicazionali che collegano la coscienza soggettiva di molti individui, dalle tribù alle reti sociali telematiche. Attraverso il raffinamento e l’evoluzione di queste pratiche la specie umana ha dominato su tutte le altre creature della natura, essendone sin dagli inizi la principale fonte di distruzione (l’abbattimento sistematico delle foreste iniziò ad opera dei Sapiens che accerchiavano e sterminavano i Neanderthal, ed è poi continuata per provvedere ai bisogni delle società sedentarie umane). Tuttavia l’invalicabile limite erano le regole biologiche – algoritmi naturali che permettono di decidere se un dato individuo appartiene all’insieme – che hanno determinato anche per la specie umana i fondamentali parametri comportamentali e operativi. Secondo alcuni gli esseri umani sono un assemblaggio di algoritmi biologici, secondo altri sono il risultato di un’azione creatrice esterna che nel caso delle fedi monoteistiche riconosce in Dio l’origine e l’ordinatore. Tuttavia entrambi riconoscono che le regole biologiche, siano esse evolutive o divine, sono pregnanti nell’esistenza umana.

La forza creatrice di storie delle quali ci si convince risiede nella possibilità e capacità di comunicarle a gruppalità umane sempre più ampie. Da quando è nata la scrittura sono apparse potenti entità immaginarie che hanno organizzato milioni di persone e ridisegnato la realtà attorno a descrizioni che hanno abituato gli individui a viverla attraverso la mediazione di simboli astratti. Mentre il mondo animale comunica solo attraverso una descrizione (fotografica) della realtà, i discendenti dei Sapiens hanno usato il linguaggio per creare “nuove realtà”: un lungo processo di creazione di fake news. A ben vedere, questo processo ha spostato l’epicentro dall’oggettività informativa (la notizia fattuale e verificabile) alla comunicazione intersoggettiva (storie e narrative che stimolano le coscienze di più individui). Quest’ultima si rafforza attraverso un mutuo riconoscersi all’interno di una rete comunicativa che in prospettiva (progresso) soddisfa i desideri reconditi di ciascuno. Alla fine si crede coscientemente in ciò in cui tutti gli altri credono. Senza questo procedimento non sarebbero nate le corporazioni – da quelle medievali alle moderne corporations – nelle quali le caratteristiche dimensioni soggettive (ad esempio, sentire dolore) ed oggettive (ad esempio, un albero) sono sostituite da quella intersoggettiva (identificarsi al gruppo). È interessante notare che si tratta delle prime strutture inorganiche dotate di intelligenza (umana) e capaci di trascendere dai soggetti fisici che l’hanno generata. Ad esempio, pensiamo alla Apple senza Steve Jobs o alla Fiat senza gli Agnelli o Marchionne.

In pratica la nota teoria sociologica di Ferdinand Tönnies, che verso la fine del XVIII secolo distingueva tra una Gemeinshaft (società naturale fondata sulla comunanza valoriale e l’interazione personale tra soggetti) e una Gesellshaft (società associativa e di scopo fondata sulla razionalità formale e l’efficienza operativa) non è più valida. Infatti, assistiamo alla trasformazione della Gemeinshaft che non è più determinata dal Wesenwille (volontà naturale) ma dall’emergere di sentimenti ed emozioni generati da specifici stimoli automatizzati dei quali spesso si ignora l’origine. Quanto alla Gesellshaft, assistiamo al suo fondersi nella modificata Gemeinshaft per diventare non solo titolare di soggettività (come gli umani) ma un modello intersoggettivo che trascende dai soggetti. In questa fusione prevale la disumanizzazione (alienazione) mentre si rafforza l’aspetto strutturale, l’organizzazione burocratica, che riorganizza la gerarchia sociale attorno ad una complessa divisione del lavoro, dei ruoli e delle funzioni da svolgere.

Negli ultimi 2000 anni della storia umana, nonostante i diversi ordini immaginari, la legge di natura e la prospettiva del progresso sono state le condizioni comuni di tutte le comunità umane. Infatti, il limite intrinseco naturale e l’aspirazione all’elevazione verso la luce (l’illuminazione) avevano sempre l’epicentro in una super-entità, naturale o divina. È solo dal XV secolo che nell’Europa religiosa e cristiana un potente movimento di pensiero ha ribaltato l’epicentro culturale – da Dio/natura all’uomo – generando una nuova spiritualità segnata da tensioni e inquietudini ignote all’epoca precedente (Battista Mondin). Infatti Erasmo da Rotterdam scriveva che “ciò che l’occhio è per il corpo, la ragione lo è per l’anima”, che in chiave neoplatonica diffuse un nuovo sentimento religioso basato sulla tolleranza e sulla critica dei difetti presenti nella società. Non a caso l’attuale programma di scambi culturali dell’Unione europea si chiama Erasmus.

L’umanesimo partì dall’Italia, in particolare da Firenze, e si espanse in tutto il continente europeo, maturando tre secoli più tardi nell’illuminismo e nel positivismo. La secolarità del pensiero sviluppatasi tra XVII e XVIII secolo relativizzò il ruolo delle religioni ma non uscì dal tracciato storico in cui i sistemi di norme e di valori creati dagli uomini si fondano su convinzioni dell’esistenza di ordini sovraumani, siano essi una razionalità sistemica superiore (spesso derivata dalla natura o dal cosmo) oppure agenti di forze esterne (spirituali). Anche le successive derivazioni del pensiero umanistico – liberale, socialista ed evoluzionista – si ispirarono ad assiomi fondamentali del monoteismo. L’eguaglianza – come annunciato nei testi sulla creazione divina, ma inesistente nella biologia – fu centrale per il pensiero liberale e socialista. Invece le leggi di selezione biologiche naturali e il concetto religioso “noi/loro” – entrambi discriminanti tra abili e disabili nonché tra gli iniziati alla fede in Dio e coloro che ne erano esclusi ab origine – è all’origine del pensiero evoluzionista.

L’inizio del declino può essere collocato nel ventennio cerniera del millennio

Inoltre le debolezze strutturali del sistema istituzionale in Italia (inefficienza della pubblica amministrazione, lentezza della giustizia civile, debito pubblico elevato, evasione fiscale, etc.) si sono sommate alla mancanza di una visione di politica industriale e alla crisi delle famiglie imprenditoriali più importanti. La somma di tutti questi fattori è all’origine della bassa crescita di produttività negli scorsi decenni e della difficoltà di risposta alla crisi finanziaria 2008-15 da parte delle imprese italiane. Pertanto il sistema produttivo italiano, che già era in difficoltà ad adeguarsi alla globalizzazione nel decennio ‘98-2008, è stato molto colpito dalla crisi finanziaria, come accade agli tsunami dopo i terremoti: con fallimenti a catena, collasso di interi settori e difficoltà a uscire dalla crisi. L’industria italiana è allora diventata terra di conquista dei predatori stranieri di imprese: molti di essi hanno fatto razzia dei marchi italiani più prestigiosi e della loro capacità manifatturiera accumulata nei decenni scorsi. Centinaia di imprese con notevoli capacità industriali, dai giocattoli alla siderurgia agli alimentari, sono passate sotto il controllo di finanziarie estere o di gruppi stranieri, con grave danno per il nostro futuro.

Ovviamente i dati statistici sugli investimenti esteri in Italia e su quelli italiani all’estero possono essere interpretati in tanti modi, così come quelli sulle fusioni e acquisizioni, dosando in modo diverso ottimismo e pessimismo e visione nazionale contro visione europea. Tuttavia va sottolineato che qualsiasi lettura dei dati deve ammettere che solo una parte limitata del sistema delle imprese con sede in Italia si è adeguata all’internazionalizzazione e al modello dei network globali. Seguendo le ricerche Istat si può valutare che le imprese innovative sono solo un terzo del totale, mentre i restanti due terzi sono a rischio oppure operano su settori e con strategie stagnanti e tradizionali. A mio avviso, inoltre, la difficoltà di sviluppare una visione del futuro dell’industria e di proporre una politica industriale adeguata ha riguardato anche le forze progressiste presenti in Parlamento e gli stessi sindacati, che si sono attardati per decenni sulla richiesta di concertazione col governo delle politiche fiscali, sociali ed economiche, tralasciando le politiche industriali e i temi detti sopra. Finalmente, con la legislatura che si è chiusa, si può dire che sia iniziata una prima esperienza di politica industriale organica e adeguata ai tempi, seppure ancora debole e a mio avviso incompleta. Mi sembra che i punti di forza di questa esperienza possano essere riassunti in quattro insiemi di provvedimenti.

Incentivi alla produttività aziendale basati sui premi di risultato, sulla partecipazione e sul welfare aziendale. L’aumento della produttività aziendale, basato su uno sforzo collettivo dei lavoratori, è al centro delle nuove normative sui premi di risultato contenute nelle leggi finanziarie 2015, 2016 e 2017. Le nuove normative hanno il merito di incentivare il superamento delle pratiche opportuniste spesso presenti negli accordi aziendali degli anni precedenti. La normativa richiede una definizione più rigorosa degli indicatori di risultato, un miglioramento reale rispetto all’anno precedente e un maggior coinvolgimento dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali. Nella legge finanziaria 2017 la partecipazione paritetica dei lavoratori al miglioramento continuo è ancora più incoraggiata, sino a prevedere incentivi per progetti congiunti di innovazione tecnologica e organizzativa tra aziende e rappresentanze sindacali. Anche la modifica della legge fiscale a favore di un welfare aziendale negoziato con i sindacati è da considerare un incentivo per le imprese ad aumentare il grado di coinvolgimento e partecipazione dei lavoratori. Il buon successo di questi provvedimenti è testimoniato dal fatto che sono stati depositati più di 27.000 accordi aziendali.

Incentivi alla innovazione tecnologica con il Piano Industria 4.0. Il Piano Industria 4.0, lanciato dal ministro Calenda per il rinnovamento tecnologico e l’introduzione delle tecnologie digitali nelle imprese, è indubbiamente il provvedimento più importante di politica industriale. Dai dati disponibili sembra che esso abbia effettivamente stimolato sia un ampio rinnovo dei macchinari che l’introduzione delle nuove tecnologie digitali e produttive, anche se forse in misura minore rispetto all’adeguamento dei macchinari. Ma soprattutto  ha avuto un effetto positivo sul piano della cultura di impresa, producendo una sorta di effetto “sveglia” sul sistema industriale e un benefico shock per uscire dall’attendismo del periodo di crisi.

Sostegno ai marchi, al made in Italy e più controllo sulle operazioni di fusione e acquisizione. Su questi temi, che sono complessi per le implicazioni con l’Europa e i trattati internazionali, il governo ha finalmente iniziato a muoversi con un po’ più di attenzione e di determinazione soprattutto i ministeri dello Sviluppo economico e delle Politiche agricole. Diversi provvedimenti hanno cercato di tutelare i marchi italiani e le filiere del made in Italy, anche nel settore agroalimentare.

Sviluppo delle infrastrutture strategiche, in particolare telecomunicazioni banda larga, energia, ferrovie ad Alta velocità e altre infrastrutture. Anche su questi punti il governo, in parte proseguendo piani e linee di lavoro precedenti, ha accelerato o aggiornato i piani di sviluppo finalizzandoli meglio al miglioramento del sistema produttivo.

Le linee di politica industriale attuate negli ultimi anni sono certamente importanti e utili, ma devono essere arricchite e completate

I punti di debolezza della legislatura che si è chiusa possono essere indicati a mio avviso in tre aspetti:

  • scarsa attenzione e interventi troppo deboli sulle delocalizzazioni, cessioni e fusioni, soprattutto per le imprese medie e grandi; ciò si è verificato anche nel caso di imprese di interesse nazionale come le telecomunicazioni, l’energia e la siderurgia; si poteva fare di più per alcune filiere molto rilevanti per l’economia nazionale, come l’automobile, l’agro-alimentare e la moda;
  • mancato completamento del Piano industria 4.0: ciò si è verificato sia per le infrastrutture di sostegno al know how (Competence Center) e la rete dei diffusori, sia soprattutto per l’innovazione organizzativa, del lavoro e del sistema formativo, necessaria a sostenere lo sforzo di innovazione tecnologica;
  • debole o scarsa integrazione tra le varie linee di riforma: in particolare non c’è stato coordinamento tra gli interventi sul mercato del lavoro (Jobs Act), gli interventi sulla scuola e la formazione, la riforma della pubblica amministrazione, gli ammortizzatori sociali, le politiche fiscali e finanziarie, il piano industria 4.0; i diversi progetti di riforma sono stati concepiti e realizzati prevalentemente per linee interne e con principi elaborati anni fa; non ci sono state idee guida unificanti delle varie riforme.

Le linee di politica industriale attuate negli ultimi anni sono certamente importanti e utili, ma devono essere arricchite e completate. A mio avviso i punti rilevanti su cui lavorare in futuro sono i seguenti.

  • Sostenere maggiormente il passaggio delle imprese ai network globali. Come detto sopra, oggi si valuta che solo il 20-30% del sistema sia entrato in questa dimensione (si tratta delle imprese che “vanno bene” e che tirano l’economia). Il passaggio dalla architettura tradizionale ai network globali va sostenuto con più forza attraverso strumenti e tecniche appositamente pensate per le specificità italiane, in particolare per i distretti, i cluster e le filiere. Ad esempio bisogna favorire la crescita dimensionale e l’aggregazione intorno a poli trainanti, organizzare meglio e a scala più ampia la componentistica e le forniture specialistiche, i servizi knowledge intensive, le reti di vendita nei paesi emergenti. Per le grandi imprese e per le crisi aziendali complesse bisogna dotarsi di strumenti ad hoc che favoriscano un rilancio basato sull’innovazione invece che sulla cassa integrazione. Bisogna puntare a creare lavoro invece che sostenere il reddito.
  • Difendere meglio le tipicità e i punti di forza del made in Italy anche scegliendo i settori e le politiche verticali ritenute strategiche. Come noto i prodotti tipici italiani, sia tradizionali (come le famose quattro “A” e il turismo), sia quelli innovativi (come ad esempio il biomedicale), hanno grandi opportunità di espansione nei mercati mondiali ma richiedono un sostegno più ampio sia nelle fasi di marketing e di vendita che nelle fasi di innovazione, di produzione e di certificazione. A questo scopo le politiche di sostegno trasversali a tutte le imprese, dette anche “orizzontali”, non sono sufficienti perché spesso troppo generiche. Ci vorrebbero politiche “verticali” di settore, o sottosettori, finalizzate a supportare innovazioni mirate e specifiche, con l’obiettivo di aumentare l’export e di produrre lavoro. Spesso la competitività cresce eliminando in modo mirato singole debolezze o carenze di prodotto, di processo o di competenze. Queste politiche verticali e mirate richiedono però analisi accurate e terapie condivise con le imprese e tutti gli altri attori, compresi enti locali, scuole e sindacati.
  • Creare strumenti di politica industriale adatti al sistema Italia. La tipicità del sistema produttivo italiano e la numerosità delle piccole e medie imprese famigliari richiedono strumenti giuridici, finanziari e manageriali adatti alla riconversione di queste imprese in strutture adatte ai nuovi mercati. Bisogna immaginare una vera e propria riconversione diffusa delle imprese famigliari in strutture più grandi, meglio gestite e più managerializzate.
  • Lanciare un piano nazionale per l’innovazione organizzativa, la partecipazione e le competenze delle risorse umane. Le nuove tecnologie, acquisite con gli incentivi del Piano Industria 4.0, richiedono di essere usate al meglio da nuove forme organizzative, basate più sul lavoro in team che sulla gerarchia, e da lavoratori più coinvolti e con più competenze tecniche e gestionali. Ad oggi il Piano Lavoro 4.0 è stato solo annunciato. Oltre che di formazione sulle tecnologie digitali vi è necessità di svecchiare la gestione delle imprese, soprattutto medie e piccole, con un vero e proprio Piano di innovazione organizzativa e di partecipazione dei lavoratori. Esso deve essere in grado di indirizzare anche gli investimenti sostenuti dai Fondi europei e la formazione dei Fondi Interprofessionali.
  • Riorientare il sistema scolastico, le università, la ricerca e la formazione professionale e continua.

Il Piano Industria 4.0 ha puntato lodevolmente sugli Istituti tecnici superiori, ma purtroppo sono state stanziate risorse limitate. Tuttavia tutto il nostro sistema formativo (scuola media superiore, università, formazione professionale e continua) soffre di astrattezza, di separazione dal mondo reale del lavoro, di difficoltà a preparare alla vita e alla professione, di arretratezza dei contenuti non adeguati al nuovo millennio. Invece le competenze essenziali oggi nascono proprio dalla collaborazione tra scuola e lavoro, tra formatori, imprese e società. Una politica di riorientamento dell’intero sistema formativo è certamente difficile, dato il contesto frammentato e corporativo, ma è probabilmente quella più importante e decisiva sul lungo periodo. Ci vuole non solo forza e decisione politica, ma anche visione del futuro e competenze specifiche.