di Roberto Sajeva

Il 10 ottobre scorso Walter Pedullà ha compiuto novant’anni, e “Memoria di un nonagenario” è il sottotitolo de “Il pallone di stoffa”, il libro autobiografico che Rizzoli ha mandato in libreria pLer l’occasione, e dal quale partiamo per intervistarlo.

 

Il 13 dicembre 2010, alle ore 13, fosti dichiarato clinicamente morto. Qualche minuto dopo, però, un defibrillatore ti rimise in vita. Perciò ti poni come postumo, scrivi. Approfondendo questo paradosso: è un pretesto letterario o un paradigma d’indagine? Sei sopravvissuto alla morte o sei sopravvissuto a te stesso?

Sgombriamo il campo dai possibili equivoci: io sono morto davvero, il fatto c’è stato realmente. Come dire che la realtà esiste anche fuori dal mio punto di vista di autobiografo che è creativo solo con le metafore. Ho subito un arresto cardiaco durato, invece che per l’eternità, solo qualche secondo: parola dei medici del pronto soccorso al cui defibrillatore devo la resurrezione dalla quale ora rispondo alle domande. Quello che ci ho messo io è la collocazione all’inizio dell’autobiografia. Mi è parso un provvidenziale aiuto della sorte speciale che è incaricata di seguire i casi letterari. L’incidente paramortale è stato infatti un colpo di fortuna per chi non sa da dove cominciare. Nulla di meglio che iniziare dalla fine incompiuta, per un uomo chiamato a raccontare e a spiegare la vita passata. L’autobiografia è obbligata dallo statuto del suo genere letterario a dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Per l’eventuale processo virtuale a mia difesa aggiungo che ho detto solo la verità, ma non tutta. Non basta Starobinski a dare il viatico. L’editore mi ha invitato a porre un limite agli assoluti: tutta la verità non la dice nessuno. Allora come selezionare il materiale e ridurlo all’essenziale? Ebbene, mi ha salvato quella morte temporanea, cioè paradossale, insomma un po’ grottesca. Io per indole – che per ordine della natura si può chiamare destino – sono irresistibilmente incline a prendere la vita allegramente, per gioco, che è indietro nella memorialistica, nel racconto dei fatti, preferendo quelli comici. In un testo oltre al destino naturale conta anche il progetto: cioè quel come che uno sperimentalista totale quale io sono – chiamiamolo il realismo dell’avanguardia – considera anche più importante della cosa di cui si scrive. Resuscitando e poi scrivendo mi sono ricordato che io da cinquant’anni studiavo  la narrativa del Novecento guardando dal versante dell’umorismo come linguaggio delegato a svelare le imposture delle società e delle culture al potere, ed usando per grimaldello il riso di Svevo, Pirandello, Bontempelli, Palazzeschi, Marinetti, Campanile, Savinio, Gadda, Zavattini, Landolfi, Calvino, Malerba, Arbasino, Bene, Manganelli, Massimo Ferretti e tanti altri narratori grazie ai quali il filone comico  è  quello che meglio ci guida alla comprensione delle magagne della storia e dell’esistenza. Quando sono risorto ero quello di prima: o meglio, mi sono trovato nella condizione tragica di chi può morire in ogni momento. Un po’ diverso sono diventato quando su richiesta dell’editore (a chi vuoi che interessi la mia vita?) ho iniziato l’autobiografia. Dovevo prendere le distanze che consentono di passare dalla paura di morire alla elaborazione ironica o parodistica dell’evento. Dove non arrivava la cosa, cioè la mia vita drammatica, sarebbe intervenuto il come, cioè il linguaggio. Per me la tragedia è la morte, la commedia è la vita. Detto col massimo rispetto per entrambe, io posso fare a meno della morte ma non della vita. È stato un amore a prima vista che ho coltivato con l’ironia che si merita.

 

È molto divertente vederti raccontare la gravità del fatto, la ponderosità delle conseguenze, e scorgerti comunque a toccare questo Mistero Supremo con una birbanteria che non si capisce se dovuta a una posa, smaliziata dalla cultura, o a un candore impaziente di inzupparsi.

Diceva Perelà nel suo Codice: “Io sono leggero, molto leggero”. Ho manovrato la mia morte e l’altrui con leggerezza, avrei detto con incoscienza. Nel momento cruciale non ho mica capito che stavo morendo. Poi, è vero, nel raccontarlo sono stato un po’ monello, perché coi giochi di parole vinco qualche idea seria. Sono stato parecchio malizioso come una vecchia volpe della scrittura, ho assunto una posa da attore consumato: ma l’arte è una finzione in cerca di verità e ci ho inzuppato il pane nel Mistero Supremo come nei misteri inferiori e interiori.  In quanto al candore, ebbene sì, me lo riconosco: mi serve credere in qualcosa per potere scrivere. Smacchio qualsiasi evento drammatico e così mi faccio piacere la vita, tutta la vita, nient’altro che la vita.

 

Il Meridione della tua infanzia possiamo sintetizzarlo come remoto e affamato. Oggi le profonde province meridionali sono dispersive invece che remote, obese invece che affamate. Che ne è stato di Meridione e meridionalismo?

Il Meridione è quello che è, molto migliore di quello che era non solo nel ventennio fascista ma anche nel ventennio successivo, quando abbiamo lottato per l’occupazione delle terre incolte, per l’alfabetizzazione totale, per il diritto allo studio. Quando io ero giovane le attività culturali erano l’unica attrazione e la più energica spinta a cambiare in direzione della modernità, che allora si chiamava industrializzazione. Siccome però l’industria non veniva da noi, andammo noi dall’industria, a Torino e Milano. Si confermò che il Sud è la maggiore fabbrica di emigrati. Che ora partono da una visione più vasta e remota: sempre il Nord, sempre più Nord, Francia, Germania, Inghilterra, Scandinavia. In verità mangiamo di più e mangiamo meglio. Diventiamo obesi, ma prima eravamo troppo magri per la fame. Insomma il Sud è il punto cardinale dove il progresso economico è visibile, nonché tangibile. Si tocca con mano che il meridionalismo ha dato frutti nutrienti, e ciò grazie ai socialisti non meno che ai comunisti, accomunati da un obiettivo che poteva essere perseguito con una politica di riformismo radicale più che con il gradualismo: il progressismo tiepido sembra immobilità quando la vita non è tanto lunga, In quanto alla riforma agraria, furono distribuite le terre poco prima che i contadini prendessero il treno per l’Alta Italia e io con loro. Al Sud arrivavano le riforme che avevano funzionato altrove, ma furono sbagliati i tempi: senza contare che in Italia vince chi frena. Prendiamoci tuttavia i meriti che ci spettano: sono stati i socialisti ad avviare un processo riformistico sia in termini di strategia (il centro siderurgico di Gioia Tauro che anche da fallito ha generato il maggiore porto per containers del Mediterraneo) che in termini di tattica: il prolungamento dell’Autostrada del Sole, l’Università della Calabria, la difesa dell’ambiente dalla cementificazione selvaggia in Sicilia, ad Agrigento. Sono messi male tutti gli ismi del Novecento, ma quello che è messo peggio è il meridionalismo, dove oggi la questione sociale è stata scavalcata dalla questione criminale in direzione dell’attuale disastro morale. Comunque innocenti non ce ne sono. Tanto meno lo sono i meridionali che si sono arresi. Una domanda attenuante: come ci si importa se manca la prospettiva di una condizione diversa? Noi da giovani avevamo solo il futuro, oggi conta solo il presente protestatario, il tempo che cambia per lasciare le cose come stanno. Secondo Svevo, che era un socialista alla Turati, la protesta è la premessa della rassegnazione.

Chiudo prima di passare alle speranze e agli auspici. Mi sta tornando un attacco di candore infantile e mi auguro che la questione meridionale diventi una ineludibile e improcrastinabile questione europea. Resto un socialista a trazione anteriore. Da ottimista incurabile faccio affidamento sulla paura come motore della ripresa. Il candore mi consiglia di credere negli Stati Uniti d’Europa, ma il birichino che sempre cova in me, mi invita a lottare prima per un’unificazione che scelga la socialdemocrazia che oggi sta alzando la testa con gli occhi rivolti a un nuovo modello di socialismo alternativo.

 

Il socialismo. Dal massimalismo di un giovane professore al riformismo dell’intellettuale maturo, sempre però in equilibrio dinamico tra il demone della revisione e il daimon della coerenza. Hai parlato anche di una tua personalissima corrente “muta”. Qual è stato il tuo socialismo?

Il mio socialismo è fatto di tutti i socialismi passati, più uno: il socialismo con cui la cultura darà la risposta alla situazione che oggi sembra negarlo. Io ho scelto il massimalismo quando e dove il gradualismo socialdemocratico era troppo lento, ho scelto il riformismo strutturale quando il conflitto pareva consentire l’alternativa socialista: e pur preferendo un progressismo d’attacco ho accettato quello di difesa delle conquiste ottenute per suo merito. Sono di quei socialisti che hanno applaudito alla rivoluzioni contadine, russa, cinese, cubana, nonché cilena, e che hanno dato fiducia al “protezionismo creativo” di Delors, Blair, Zapatero e Schroeder. Con Lombardi, del quale ho apprezzato la tensione culturale e la visione globale, ho aderito al filone che pratica il modello socialdemocratico, quello che difende gli elementi di socialismo concordati col neocapitalismo, senza dimenticare che il socialismo è nato per succedere al capitalismo. Il mio socialismo lo definirei sperimentalistico, in coerenza con lo sperimentalismo che caratterizza la mia attività di critico, di professore, di intellettuale. A tale proposito mi capita spesso di ricordare che un biologo inglese, Medawar, ha distinto uno sperimentalismo deduttivo (Aristotele, Galilei e Kant) da uno induttivo (Bacone). Propendo per il primo, che verifica sulla realtà in sviluppo la validità dei principi (per esempio illuminismo e marxismo e i loro eredi novecenteschi): ma pratico pure il secondo, che funziona meglio quando l’ideologia blocca la conoscenza che ignora la propria destinazione. Dunque questi due sperimentalismi più uno: quello che parte dall’obbligo di difendere i gruppi sociali sottoposti nel cui riscatto trovano le loro fondamentali ragioni d’essere il pensiero e l’azione dei socialisti. Da materialista dovrei lasciare l’iniziativa alla realtà nel momento di crisi irreversibile del capitalismo, ma da sperimentalista che crede alla potenza del linguaggio so che la parola torna agli intellettuali, capaci di una realistica e fantastica finzione che prevede o attira futuro possibile. Non so quali connotati avrà e quale nome assumerà domani il progressismo: ma prima o poi se imbroccherà la direzione giusta la nuova parola incontrerà la nuova cosa. Troppo candore? Se non avessimo avuto candore, non avremmo imposto quello Stato sociale che è il massimo socialismo possibile del Novecento. Insomma io continuo a sperare che la morte del socialismo sia temporanea come la mia del 2010.

 

Scrivi anche del dialogo tra il socialismo italiano e la grande cultura. La tua vita stessa ne è la testimonianza sintetica di maggior valore. Sembra però esserci stato un genocidio culturale contro i socialisti, o almeno una scomunica, iniziata anche prima di Mani Pulite. Ricordi la rabbia di Pertini per la produzione Rai su Gramsci, che non teneva conto né dei suoi rapporti con “quello lì”, come lo chiamò Claudio Lolli in una canzone, né del Psi.

La guerra culturale tra socialisti e comunisti, sottovalutata rispetto a cronache giudiziarie e competizioni elettorali, come è finita? I secondi hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace?

Non parlerei di genocidio, anche se si tratta di una morte auspicata dai parenti serpenti, e nemmeno di scomunica, visto che veniva da un pulpito dal quale si chiamarono i fascisti “compagni in camicia nera” mentre si bollavano i socialisti come “socialfascisti”. Di passaggio dico che, essendo un fautore dell’alternativa socialista, non sono mai stato anticomunista: i comunisti li ho sempre considerati “compagni che sbagliano”. Hanno sbagliato a far fuori i socialisti, ma dovevano far dimenticare il partito che storicamente aveva ragione. Chiamiamola pure egemonia questo rapporto di forza che negli anni Settanta è stato così sproporzionato da intimidirci e spingerci a una resa che potremmo definire anche suicidio. La fiction della quale Pertini condannò la scorrettezza storica ai danni propri e dell’antifascismo socialista era prodotta dalla rete tv diretta da un socialista. La cultura del Psi è stata protagonista e guida del processo nato dalla tragedia ungherese e dal declino dello zdanovismo in arte e dallo stalinismo in politica. Una volta mi sono divertito a elencare i nomi dei narratori, poeti e saggisti socialisti e mi sono dovuto fermare ai maggiori del secondo Novecento. Fra i narratori Bassani, Cassola, Tommaso Fiore, Carlo Levi, Rea, Fenoglio, Soldati, D’Arrigo, Petroni, Malerba, La Capria, Aldo Rosselli, Bonaviri e Strati; fra i poeti Sereni, Fortini, Caproni, Zanzotto, Pagliarani, Risi, Giuliani, Accrocca, Bandini e Ripellino, che era uno straordinario saggista, oltre che impietoso giudice dei regimi sovietici dell’Europa dell’Est. Ma per contenete i nomi dei saggisti di ogni disciplina, non basterebbe una pagina (solo dieci nomi di storici letterari: Binni, Sansone, Roncaglia, Folena, Borsellino, Segre, Corti, Varese, Caretti e Armanda Guiducci). Per non dire del ruolo politico e culturale di un partito che per mezzo secolo ha interpretato in anticipo il tramonto del comunismo sovietico e l’alba di quel dialogo coi cattolici che è all’origine della stagione di riforme che si sarebbe concluso con un compromesso tra Dc e Pci nel quale ai socialisti toccò la parte dei testimoni di nozze. Si tratta di quel compromesso storico per cui l’Italia è l’unica nazione d’Occidente a non avere avuto un governo della sola sinistra. La nemesi: i comunisti hanno liquidato o assorbito i socialisti per finire nella bocca di democristiani anticomunisti che sono diventati persino segretari nazionali del Pd.

I socialisti sono stati attivi sia nel realismo (antifascismo, Resistenza, questione meridionale, lotta alla mafia), sia nella neoavanguardia, con il maggiore romanziere, cioè Malerba, e col maggiore poeta, Pagliarani: e con due teorici della letteratura come Alfredo Giuliani e Renato Barilli mi fermo per non tornare al mio sperimentalismo. Che poi in verità è lo sperimentalismo inconsapevole con cui il socialismo è stato il motore del processo di rinnovamento che, inventato dai socialisti, è stato gestito con maggiore successo dai comunisti: io semino, tu raccogli. La guerra fratricida è finita nella cultura e nella politica nello stesso modo: i socialisti, che avevano la ragione ma non la forza, furono sopraffatti dai comunisti, che fecero propria la cultura socialista, per dimostrare di essere stati socialdemocratici anche quando tale termine era un’ingiuria per le masse, educate a una rivoluzione che dopo Yalta tutti i dirigenti sapevano impossibile. L’egemonia culturale non investe solo il presente e il futuro ma travolge il passato, falsificandolo. Confessiamolo: sono più bravi a gestire il presente, si danno un futuro assoluto che sanno utopistico, i panni sporchi li lavano in famiglia. Ma le volpi finiscono in pellicceria. E ora sono ridotti in mutande non solo i socialisti ma anche i comunisti. Che fare? Vestiamo gli ignudi con abiti puliti e ripartiamo verso una comune nuova e lungimirante avventura. Ce lo chiedono i lavoratori che abbiamo abbandonato al loro disperato destino. Ripartiamo dagli oppressi, dai deboli e dagli ingannati. Senza di loro noi non esistiamo. E vanno riconquistati i giovani che hanno i grilli in testa.

La tendenziosità? Serve anche questa se la cultura avanza con i conflitti radicali. Facciamo la critica dell’editoria sapendo che c’è quella che abbiamo permesso o voluto da rassegnati al piacere della lettura che ha ghiacciato le meningi e così ha bloccato lo sviluppo intellettuale. Facciamo l’esame di coscienza, confessiamo le nostre colpe, e diamoci una mossa, magari un movimento. Insomma, tendiamo accanitamente a un nuovo socialismo. Non conta la parola, conta la cosa: l’uguaglianza maggiore nella libertà che adatta il massimo alle esigenze della storia.

 

De Gaulle, nel ’34, scrisse: “La vera scuola del Comando è la cultura generale. Attraverso questa il pensiero è messo in grado di esercitarsi con ordine […] Non ci fu mai capitano senza il gusto e il sentimento del patrimonio dello spirito umano. In fondo alle vittorie di Alessandro, sempre si ritrova Aristotele”. Il poeta polacco Milosz, nel ’53, disse invece: “I capi di questo secolo – Hitler ad esempio – hanno attinto il loro sapere unicamente da opuscoli di divulgazione. Questo spiega tra l’altro l’incredibile confusione esistente nelle loro teste”. Ti va di darci qualche battuta sulla cultura del ceto politico e delle classi dirigenti d’Italia?

Ho conosciuto uomini politici che leggevano e scrivevano opere di filosofia morale, sono passato a politici che se le facevano riassumere per trasformare il pensiero in azione, ho frequentato politici che rispettavano la cultura che non capivano, sono arrivato a politici che, non avendo tempo nemmeno per i trattati divulgativi, si fanno sottolineare le frasi con cui si pavoneggiano. Le frasi stralciate sono diventate gli slogan con i quali la politica d’oggi comunica banalità a lettori che avevano fatto il loro percorso dalla riflessione più profonda alla più demenziale battuta di spirito. D’altronde dove lo trovano il tempo per pensare e per leggere individui incollati al telefono cellulare per ascoltare cinguettii da contestare senza pensarci? Naturale che i presidenti del Consiglio non sappiano guidare con saggezza, che i ministri mostrino mancanza di esperienza, che i segretari di partito siano slegati dai principi ereditati dal passato, quando si agiva con un pensierino al programma. Una volta il politico faceva una dichiarazione al giorno, ora dedica l’intero giorno a cento dichiarazioni frettolose, contraddittorie e sgrammaticate. Bisognerebbe ripartire da una nuova grammatica, ma purtroppo trionfa quella politica della chiacchiera che annega la realtà fattuale. La chiacchiera è conservatrice, progressista è la cultura. Con l’avvertenza che questa, se chiacchiera con le idee del vecchio progressismo, tradisce se stessa. Come la politica di sinistra che si limita a slogan patetici. S’ode a destra uno squillo di slogan, a sinistra risponde uno slogan, ma così vince la destra.

 

In Francia ormai si dice che la crisi della politica sia proprio la crisi delle riviste. Tu hai molto lavorato con le riviste, ne hai fondate alcune Sono ormai uno strumento inevitabilmente autoreferenziale o hanno solo bisogno di una revisione?

C’è conflitto di interessi: sono troppo coinvolto personalmente, ho fondato almeno cinque riviste e collaborato a non so quante, nella mia lunga vita di militante come critico, come professore e come editore. Il fatto è che io mi affeziono ai più diversi canali di comunicazione culturale. Faccio sempre di tutto per migliorare o almeno tenere in vita le strutture delegate al dibattito, al dialogo, alla condivisione delle idee. Se non credo, abbandono il campo e cambio genere letterario, arte o linguaggio. Mutando il linguaggio rinascono la televisione, il teatro, la letteratura, l’Università e le riviste. All’inizio del Duemila ho fondato e diretto due riviste di cultura e arte contemporanee. Una, Il caffè illustrato, ha chiuso sei anni fa: era la più originale rivista del panorama letterario, fu uccisa dal crollo delle inserzioni pubblicitarie conseguente alla crisi economica del 2008. La seconda, L’illuminista, è ancora viva dopo vent’anni: ma, finanziata dalla “Sapienza”, deve rispettare le regole dell’accademia. Naturalmente rispettoso come può essere uno che pratica l’eresia formale e sostanziale senza la quale si diluisce il solito brodo. Erano richieste riviste con dissonante prosa breve e di veloce ricezione, come le illustrazioni trasgressive: e questo ho fatto col Caffè illustrato. Servivano numeri monografici sui classici moderni, e io ad una rivista monografica come L’Illuminista ho dato vita. Detto banalmente: cercando la nuova strada mi sono limitato alla differenza che è insofferente della ripetizione. Le riviste debbono vivere solo se se lo meritano in virtù delle idee, nonché del linguaggio che rinverdisce quelle usate e riciclandole le manda a sbattere contro chi rifiuta le riviste come pregiudizialmente sovversive. Lo sperimentalismo è revisione? Va riveduto il modello con cui inseguire il lettore ignaro del fatto che le idee desiderate circolano già. Finché ci saranno le idee impensate, vivranno le riviste. Evitare il grigio. Il rosso sta tornando di moda in compagnia del verde. Accostati, non fanno solo colore. Parola del figlio di un sarto calabrese che odiava il nero orbace.

 

Hai anche collaborato con Mondoperaio. Come consideri lo sforzo di tenere attivo questo spazio?

Mondoperaio è una buona risposta alla odierna situazione culturale e politica. Nella sua storia c’è tutto il secondo Novecento, come fase creativa del socialismo più avanzato ed efficace. Se si guarda l’indice del numeri passati si capisce chi nella sinistra ha capito prima come si interpreta e si governa il mutamento possibile nel confronto con chi sa gestire l’opposizione. Dovrei fare un elenco di pensatori politici determinanti per la conoscenza del processo che ha spinto i socialisti al miglior centro-sinistra della Repubblica italiana, ma dalle colonne di Mondoperaio porterei inutili vasi a Samo se per esempio nominassi Bobbio, Vassalli, Ruffolo, Giugni, Amato, Luzzatto, Archibugi, Roberto Guiducci, Perrotti, Musatti, Rossi Doria, Portoghesi. Altri tempi, altro terreno di confronto, altre prospettive: e tuttavia ora una funzione ce l’ha la rivista diretta egregiamente da Covatta con il suo indispensabile contributo di conoscenze. Ce l’ha perché nel mondo c’è richiesta di socialismo anticapitalistico. Sta bollendo in pentola qualcosa di nuovo da portare in tavola. Fa bene Mondoperaio a non portarvi una minestra riscaldata. Il socialismo nutre se è un cibo genuino.

 

Le tue riviste ci servono da pretesto per tornare un momento sulla questione meridionale, allargandola anche a un contesto internazionale. Il caffè letterario e l’illuminista, due testate che si richiamano (evidentemente) all’Illuminismo, che fa da Leitmotiv almeno per la quarta parte del libro. A proposito di Illuminismo italiano sovviene soprattutto quello lombardo: gli Scapigliati, Beccaria, l’Accademia dei Pugni, Verri, Manzoni e tutto il filone Dossi-Gadda-Arbasino. C’è però anche un illuminismo mediterraneo? Soprattutto nel contemporaneo, un pensiero meridiano, per dirla con Camus?

Esiste un illuminismo meridionale figlio o fratello di quello lombardo, che col Conciliatore sostenne la rivoluzione industriale inglese. Con la Ragione, che è più logica di un Dio morto, si può vedere la Verità, che ha perduto l’iniziale maiuscola per accontentarsi delle verità relative: è più facile guidare processi sociali ai colpevoli che sono troppo potenti per andare in carcere. Ebbene, l’illuminismo mediterraneo di Sciascia li individua e li condanna. È venuto di nuovo il momento di istruire pratiche poliziesche e colpire i responsabili, che in parole povere e fuori metafora sono coloro che si spartiscono il potere. È una verità faziosa?  Trovati con la ragione una verità tendenziosa e credici: se ci muori sopra, essa diventa assoluta. È la strategia di Savinio, ateniese caro a Sciascia, che combatteva cambiando cavallo finchè non ne scopriva uno imbattibile. Vi pare un gioco? Lo è. E fa ridere. L’illuminismo lombardo fa la commedia, cioè ironia o satira, e invece l’illuminismo meridionale fa la tragedia. Che secondo Blanchot è inseparabile dalla verità. Oggi viviamo in una tragedia ma ci viene da ridere. Ricominciamo dal riso? Secondo Benjamin, esso un buon inizio per la dialettica. Nuovamente Voltaire?

 

Al di là di Illuminismo e illuminazione, forse Pizzuto e D’Arrigo. Due meridionali, in particolare due siciliani di cui ti sei occupato molto, sembrano appartenere ad altro. Senza scomodare il sempre avvincente ma assai logorato binomio apollineo-dionisiaco, quest’altro Mediterraneo, notturno e abissale, è un complemento o una dissociazione rispetto a quell’altro?

Io non pongo limiti al Dio della letteratura. Tutte le strade conducono a Roma e sennò devio il corso per indirizzare su di me il fiume delle parole scritte. Io non sono meno abissale di d’Arrigo e notturno di Pizzuto. Sono felice come un bambino di seguire le correnti marine alla ricerca dell’uovo d’anguilla che risolverebbe il mistero della nascita della vita: e mi diverto infinitamente a muovermi in mezzo alle metafore di cui sono lastricate le vie e le case piccoloborghesi di Pizzuto, il narratore che ha reso splendenti le pietre sulle quali camminano i cittadini senza sapere che ogni oggetto ha un significato emozionante. Nella loro narrativa c’è di sicuro molta illuminazione lirica, ma c’è pure dell’illuminismo, di quello umoristico. Risponderei che sono un complemento, e tuttavia non temo la dissociazione. Io non pongo limiti alla mia disponibilità all’irrazionale. La cultura ha l’obbligo di tradurlo in energia ignota e possente.

 

Passando alla critica come ambiente e come disciplina: c’è un indirizzo, liquidato come snob, Cecchi-Praz-Macchia-Ripellino-Citati, contrapposto all’eco accademica, editoriale e politica di Eco. C’è poi la schiera molto eterogenea dei polemisti, e quella un po’ opaca e autoreferenziale degli accademici. Per non parlare delle sette marxiste. In questo panorama, certamente riduttivo, ci sono infine figure – penso a te, Debenedetti e Savinio, che non sembrano essersi fatte mancare nulla: accademia ed eresia, addirittura autorevolezza e gioco. Si può fare una critica della critica, o almeno dei critici?

Dopo essermi messo al mio posto, io ho giocato in un campionato inferiore a quello di Debenedetti e di Savinio: confermo la mia propensione a conciliare accademia ed eresia, la serietà e il gioco, nonché altri opposti. Mi piacciono Praz, Macchia e Ripellino, e ammiro la drolerie con cui Eco fa il critico. Ovviamente si può, anzi si deve, fare critica della critica. Ogni decennio muore una critica di quelle nate da un metodo con cui il Novecento ha praticato un fecondo dongiovannismo storico e tecnico.  Vedo però nascere una critica che porta le prove che abbiamo sbagliato a coprire gli errori perché sarebbe stato dannoso alla causa. Venga, forse è venuta già, una critica che racconti cosa nascondeva l’ideologizzazione totale della realtà. Siamo i figli delle nostre oneste imposture. Non vado ai funerali annunciati della critica militante perché si tratta di morte presunta. Leggo ottimi libri teorici, saggi e recensioni. E tuttavia qualcosa di vero c’è nella lagna o denuncia. Pochissimi leggono monografie o altra opera critica. I lettori hanno rinunciato a capire cosa veramente suggerisce il “narratore profondo”.  Esiste una critica superficiale? Sono postmoderno, ma non lo sono abbastanza da praticare l’amnistia culturale con cui ci assolviamo.

 

La critica come genere letterario invece? Una scrittrice di cui hai curato, tra l’altro, il profilo in una delle tue riviste, Anna Maria Ortese, sembrerebbe esserne un ottimo esempio.

Certamente la critica è un genere letterario, cioè è letteratura. È letteratura quanto i più nobili generi letterari? I lettori di Foscolo, Leopardi, De Sanctis, Carducci, Serra, Montale, Debenedetti, Contini, Boine, Cecchi, Longhi, Ripellino, Calvino, Pasolini, Manganelli, Eco e altri sono certi di sì. Naturalmente la domanda è: quale letteratura per i critici letterari. Anche loro sono costretti come Sherazade a trovare uno stile che convinca lo sposo crudele a rinviare la decapitazione. Non possono scrivere critica “alla maniera di” un grande narratore, come impropriamente si è detto del gaddismo di Contini. Insomma, Debenedetti deve scrivere come Debenedetti. Nessun critico diventa scrittore con lo stile di un altro.

 

Permettimi un gioco, prendendo un’immagine come pretesto. Zolla parlava di alternarsi di civiltà del commento e civiltà della critica: civiltà fondate dunque su testi sacri che danno senso agli uomini, e civiltà invece in cui gli uomini interpretano i testi senza limitarsi alle glosse. Lasciando stare le intenzioni reazionarie di Zolla: dopo alcuni secoli di sempre più scientifica messa in crisi di opera, autore e lettore, una impressione diffusa è invece quella di vivere intasati dai commenti, in assenza però del Sacro. Quotidiani di settanta pagine, gli opinionisti televisivi, i social network. Chiose pressoché innocue, sia quando positive che quando negative, ma terribilmente totalizzanti.

Naturalmente io sono favorevole all’interpretazione. Senza di questa non farei né il critico né lo storico della letteratura. Mi limiterei a trascrivere i testi che mi hanno aiutato a capire perché vivo e scrivo. In quanto al Sacro, da inesperto e con un paradosso blasfemo lo giudico il risultato di un’interpretazione che, sia pure in buona fede, è ingannevole.

 

Hai iniziato a leggere e scrivere in un’Italia in cui Leopardi subiva ancora critiche pascoliane (rose e viole che non fioriscono insieme), e crociane, che volevano limitarlo ai versi idilliaci. Nel tuo libro poi fai il ritratto dei tuoi due maestri: quello (credo inedito) di Della Volpe, e un ennesimo di Debenedetti. È grazie a loro che ti sei potuto elevare sui rottami degli entusiasmi positivisti e delle pretese idealiste. Il materialismo storico non è però anch’esso una forma di Gnosi? Hai attraversato l’esperienza della neoavanguardia, delle teorie letterarie. Ideologia e filosofia cosa sono rispetto alla critica, alla letteratura e al tuo lavoro, nel bene e nel male?

Non sono attrezzato per una risposta adeguata, perciò ricorro a due domande da dilettante di pensiero religioso. Il materialismo storico è una Gnosi perché ha elevato alla divinità l’homo oeconomicus? Costui parla con Dio senza mediazioni? Se il marxismo è solo una profezia, a giudicarla dal presente non deve essere tanto sbagliata: mai l’homo oeconomicus è stato così onnipotente come oggi, che l’economia è il motore di tutto. Erano due marxisti eretici Debenedetti e Della Volpe, e io più di loro: magari mischiando il platonismo del primo con l’aristotelismo i del secondo. Io mi comporto cosi: scelta la struttura, mi considero libero di muovermi all’interno di essa e vado a cercare l’homo oeconomicus non all’inizio, ma dove si nasconde per apparire quando va a sbattere su un soggetto in disponibilità. Continuando nella banalizzazione di questioni tuttora complesse, c’è coerenza con quanto succede in microfisica, quando la luce della particella atomica si accende senza dire da dove arriva e perché ora o qui: come un’epifania, un atto gratuito, un intermittenza, la scintilla provocata dallo sfregamento di registri linguistici. Così operano le avanguardie storiche, quelle calde e rivoluzionarie (cioè futuristi russi, dadaisti cosmopoliti, espressionisti tedeschi, cubisti surrealisti francesi e spagnoli), o reazionarie (futuristi italiani, imagisti angloamericani, ermetici di tutta Europa). E analogamente funzionano le neoavanguardie fredde come la nostra, che inconsapevolmente ha disegnato la struttura da cui è nata la contestazione del ’68. Questa almeno è la tesi di un mio saggio del ’70, La rivoluzione della letteratura. Teoria a parte, dirò che in pratica da critico sono partito dal linguaggio per mandarlo a cercare sia la conferma del socialismo come risposta al neocapitalismo, sia i significati che si sono liberati della vecchia ideologia per marcare novità concettuali ed emozioni imprevedibili con cui costruire il socialismo che serve in questo preciso momento. Invece della trotzschiana rivoluzione permanente, un riformismo da verificare permanentemente. Questo per dire il bene: perché per dire quanto male è andata ai socialismi non basta l’intera rivista.

 

Parli dei tuoi maestri come di paredri, ma anche come di ipostasi di Aristotele e Platone. Tu stesso ti presenti, ludicamente certo, come un cocktail di quelle due anime dell’Occidente. Si dà però in Occidente almeno una terza posizione, che periodicamente riemerge: Democrito.
Professore, sono rimaste nella memoria le tue lezioni in cui evidenziavi ad esempio quanto la teoria della relatività generale abbia influito sulla letteratura. Il romanzo è passato dalle narrazioni forti a quelle ipotetiche, dalle provvide sventure alle variabili nascoste. C’è stato però un filo d’Arianna quantistico, probabilistico, aleatorio nella letteratura che hai, diciamolo sbrigativamente, promosso o professato. Tu che continui lo sforzo, riformista, della revisione, dell’aggiornamento, vedi qualcosa di nuovo all’orizzonte tra il cielo letterario e la terra tecnoscientifica?

Non ho i mezzi sofisticati per seguirti nella ricerca dei paredri: ci porterebbe così indietro che non basterebbe tornare in Cina, India ed Egitto.  Resto un seguace di Debenedetti e Della Volpe in quanto ipostasi di Platone e Aristotele, e non mi dispiace ritrovarmi paredro di Democrito. Ovviamente per l’atomismo che lo fa il genitore di una teoria approdata a scienza nell’epoca della particella atomica. L’ipostasi di Debenedetti la applico alla letteratura per capire la struttura quantistica del moderno. Mi capita di essere sbrigativo sulle questioni teoriche, non credo che la poetica coincida con la poesia, che mi interessa più dell’estetica. Io sono un lettore che interpreta i testi complessi per capire, prima, dove conducono, cioè la politica della maggior parte della letteratura, poi la letteratura in quanto poesia nata dalla cultura più avanzata. Cerco i romanzi militanti d’oggi scommettendo su quelli che diventeranno classici di domani grazie a linguaggi di rottura con la tradizione, vale a dire che interessano gli scrittori che comunicano emozioni intellettuali non precarie. Chiarito che mi muovo sempre in direzione dell’uguaglianza con la libertà del socialismo, restando saldo il principio fondante che i deboli sono le vittime di ogni sistema di potere, faccio sempre questo esperimento: vediamo cosa succede se studio la letteratura dal versante comico. Si capisce meglio e prima la verità occultata: il riso è esplosivo, spontaneo e saggio. Anche per questo ammiro Democrito: perché ha inventato la terapia del riso come grimaldello adatto a scoprire quanta impostura c’è in ogni credenza o filosofia. Mi riferisco all’episodio in cui i suoi concittadini, poiché lo vedevano ridere pure dinanzi agli eventi più drammatici, convinti che Democrito fosse ammattito, chiamarono Ippocrate. Il grande medico, dopo avere lungamente conversato con il filosofo, uscì dalla casa e ai suoi concittadini disse che Democrito era sano e saggio proprio perché rideva di tutto e di tutti. Perciò consiglio di continuare a svelare con la comicità le magagne. Il sistema attuale sa che la comicità è più pericolosa della tragedia. Bisogna annegare nel ridicolo il neoliberismo che ha consegnato alla tragedia l’intero globo. Sul terreno tragico è imbattibile: e questo è comico.

 

Torniamo alla tua autobiografia. Paradosso estremo, trinitario, tu che scrivi un’autobiografia: c’è il Walter Pedullà scrittore, c’è il Walter Pedullà personaggio e c’è il Walter Pedullà critico. Può essere letto con una confusa triangolazione Cervantes-Quixote-Sancho, o ancor più ludicamente sovrapponendo la trimurti induista col Brahma creatore, il Visnu abitatore e lo Shiva distruttore del mondo.

Siccome è in me debole il Brama creatore, pratico come Shiva la distruzione, che è premessa di un nuovo ordine. Gadda la chiamerebbe “deformazione integrativa”, Savinio “forma dell’informe”, Palazzeschi farebbe dire al suo uomo di fumo, con i versi predadaisti degli esordi, che anche l’informe è una forma. Un creatore poderoso come Cervantes   potrebbe dare forma al magma attuale attraverso un fantastico Chisciotte e un empirico Sancho. Purtroppo solo l’ultimo è alla mia altezza. E tuttavia scorgo all’orizzonte dei mulini al vento. Da una vita.

Io sono un critico che chiede allo scrittore di aiutarlo a disegnare il personaggio che sono diventato vivendo le sue vite. Mi piacerebbe che emergessero l’infaticabile lavoratore indifferente al guadagno, il professore che ha allenato i giovani a tenersi in disponibilità dinanzi a eventi che sembrano misteriosi perché non abbiamo studiato abbastanza il fenomeno, l’intellettuale che ha cercato con ogni mezzo di capire il particolare dentro l’universo globale, il politico che ha scelto le vie minoritarie che diventeranno maggioranza assoluta in un futuro prossimo: e, ultimo connotato, l’uomo che ha vissuto in sintonia con i principi egalitari. Insomma, un uomo uguale agli altri, e che da eguale si è comportato anche quando la fortuna e la fatica l’hanno sollevato alla evidenza del personaggio di pubblica utilità.

 

È bello del tuo libro innanzitutto l’Indice. Qual è l’idea compositiva dell’opera?

Visto che ti piace l’indice del Pallone di stoffa, ti mando il testo che per mancanza di spazio è rimasto fuori dal volume. È inedito fino a quando Rizzoli non lo integrerà in un’eventuale ristampa. Può aiutare a rispondere alla tua domanda.

                                       INDICE  DE Il pallone di stofa

 

                                                    INTRODUZIONE

Per  cominciare, la morte                              

                                                     PARTE   PRIMA

                                    IL PAESE DEL MELODRAMMA

CAPITOLO  I: Mio padre, mia madre e il fratello vice-padre           

CAPITOLO  II:   Il primo mare della mia vita                                        

CAPITOLO  III:  Gigante in una notte                                           

CAPITOLO  IV:  La commedia dell’infanzia                                       

CAPITOLO  V: Ho visto la ‘ndrangheta: era nella Locride                

CAPITOLO   VI:  La verità sta nel vino rosso                                      

CAPITOLO  VII:  E le parole divennero pane                           

                                                       PARTE SECONDA

NOS  SUMUS ROMANI QUI  ANTE  FUIMUS CALABRI

CAPITOLO I: << O a Roma o ‘nta cunetta>>,    disse il calabrese a San Pietro               

CAPITOLO II:  Quattro narratori e un   professore                                

CAPITOLO  III: L’Anti – Odissea

CAPITOLO IV : Nessun dorma: c’è  la Coca Cola                             

CAPITOLO  V:  L’epifania di Anna Maria                                            

CAPITOLO  VI:  Il Grande Vecchio non ero io                                 

CAPITOLO  VII:  Dove il tempo l’hai perduto, lì lo ritrovi    

PARTE TERZA

                                           LA MACCHINA   MONDIALE

CAPITOLO I: La televisione vista da vicino                                       

CAPITOLO II: Il nostro manager era un poeta                                  

CAPITOLO III: L’ala sinistra del Servizio Pubblico                                      

CAPITOLO  IV: I nominati non saranno eletti                                  

CAPITOLO   V: Colpo di Stato alla RAI                                             

CAPITOLO   VI:  Scontro al vertice

CAPITOLO    VII: Come erano vecchi i nuovi!                                  

INTERMEZZO

                                 Il giro del mondo in ottanta anni

                              PARTE   QUARTA

               TRA ILLUMINISMO E ILLUMINAZIONE

CAPITOLO  I: Nella campagna non c’è  posto  neppure  per quattro gatti                          

CAPITOLO  II:  Quel  pasticciaccio  brutto del Teatro di Roma

CAPITOLO III: La guerra di successione

CAPITOLO  IV Litterae sunt magistrae vitae

CAPITOLO  V :  Scrittori  e scrittrici in viva voce

CAPITOLO  VI: La Calabria confina con l’Emilia e la Romagna in due punti

 CAPITOLO VII: Il vecchio che avanza

Debbo ricordare che nel rispetto del formalismo che ho praticato dopo gli esordi un po’ selvaggi io sono stato sempre attento alla composizione come elemento necessario a un’ulteriore significazione di un’opera. Quando ho dovuto e potuto ho biffato la lastra del libro precedente. Nessun manierismo o autoreferenzialità: la forma è anche sostanza, e se non la vedi la scopri. Alla monografia su Savinio serviva che citassi frasi stralciate da testi lunghi per sottolineare come lo scrittore colpisse il bersaglio sostenendo tesi opposte cui era pervenuto prendendolo da due punti di vista diversi o remoti: e l’ho fatto per dimostrare come funzionasse una strategia gnoseologica con cui ci si proietta sulla verità emozionante ma passeggera. Nella monografia su Gadda – per dimostrare che non era solo un prosatore, come sosteneva Contini, ma era anche un narratore – ho cercato le prove dalle quali risultasse che Giornale di guerra e prigionia non è una lunga serie di frammenti vociani bensì la combinatoria di paragrafi di un testo programmato per diventare un risentito romanzo sulla prima guerra mondiale.  Il ritorno dell’uomo di fumo non pare un libro di critica per come elude il suo canone. È invece un Palazzeschi rivisitato liberamente ma incaricato di raccontare l’avventura di un poeta o intellettuale chiamato al governo di un paese sull’orlo della bancarotta: come l’Italia di inizio Novecento e magari quella uscita dal clerico-fascismo.  Un successivo libro su Palazzeschi compone, assemblando articoli eterogenei, il ritratto cubista di un narratore che, come dice Debenedetti, “fa centro fuori del centro”. L’estrema funzione fa dialogare la parte alta della pagina, quella che pensa la teoria della narrativa sperimentalista degli Anni Sessanta e Settanta, con la parte inferiore, dove si analizzano le opere che realizzano il progetto con le infedeltà alla poetica necessarie all’autonomia dell’arte. In Racconta il Novecento la metà che teorizza il modo moderno di fare storia è seguita da una sezione dove il diverso punto di vista prende atto che non si riassume uno scrittore in un solo linguaggio. C’è più di uno Svevo, di un Pirandello, di un Tozzi, di un Landolfi: e ciò non è il sintomo di una malattia bensì di una salute alternativa.

Le raccolte di saggi mostrano una composizione più fedele alle regole del suo genere letterario, ma lasciano che i testi vengano richiamati a severa verifica in introduzioni lunghe quanto un libro autonomo: come nel Mondo visto da sotto, che riunisce quasi tutto quello che ho scritto sulla questione meridionale nei racconti dei narratori del Sud nel Novecento. Nelle raccolte di recensioni lunghe quanto un saggio è evidente un connotato compositivo che è eloquente come un ritornello. La letteratura è accostata a riflessioni politiche e culturali che tengono rapporti di scambio fra le discipline. Il panorama sociologico collocato all’inizio della Letteratura del benessere (la prima raccolta) e del Vecchio che avanza (l’ultima) non fissa condizionamenti meccanicistici, ma instaura una contiguità che pareggia e intreccia storia, scienza fisica e psicanalisi a maggior gloria della letteratura.

Approfitto dell’occasione per segnalarvi la mia prosa critica più saporita e nutriente, quella riunita nelle Caramelle di Musil. Dove è andato a finire questo maniacale lavorio del braccio e della mente? È confluito tutto nel mare magnum che è la mia terza autobiografia. Naturalmente Il Novecento segreto di Giacomo Debenedetti e Giro di vita realizzano un’idea compositiva diversa. Io ho sette vite in una ma non mi fermo: ricomincio da tre.

Nel Pallone di stoffa convergono sia la mia vita privata e pubblica sia tutte le attività culturali di un professore che insieme ha fatto il giornalista, il critico, l’editore, l’autore di libri: cioè tutto il ciclo produttivo della letteratura, l’arte più cara di un’esistenza alla ricerca di quella che ha più impatto politico. Per esempio la tv e il teatro, da Alvaro definito acutamente “il comizio quotidiano della società civile”. A parte l’episodio  iniziale della morte passeggera a 80 anni c’è il rispetto della cronologia: dalla famiglia artigiana all’Università, dalle lotte meridionaliste all’insegnamento medio, dal rivoluzionario della giovinezza al riformista della maturità, dalla Cooperativa Scrittori all’editoria per l’alternativa socialista, dall’amministrazione dei bilanci di  grandi industrie culturali come la Rai e il Teatro di Roma alla difesa e promozione del ruolo peculiare dell’Università, ed alla creazione di riviste come La rivista Lerici, Il cavallo di Troia, Il podio (mensile di cultura dello sport del Coni), e infine Il Caffè Illustrato e L’Illuminista.

E poi la ideazione, fondazione e direzione di una Storia generale della letteratura italiana in sedici volumi e di una collana di classici intitolata Cento libri per mille anni. Ebbene, ribellandosi agli interdetti cronologici, i ricordi arrivano sulla pagina richiamati dal tema a dire la loro nel momento in cui la memoria involontaria li riscalda per renderli emozionanti. Chiamiamola una composizione quantistica e probabilistica in opposizione o alternativa al meccanicismo del prima che genera il poi. Così tutto resta nella storia, optando per il tempo che rende contemporaneo al presente il passato remoto. Approfitto dell’occasione per associarmi a Werner Heisenberg quando sostiene che le grandi scoperte scientifiche sono come gli stili letterari: vengono superate ma restano complementari al presente. Così sia anche il socialismo.

 

Non mi permetto di entrare troppo nel tecnico.  In conclusione prenditi lo spazio per dirci dei problemi che ti sei posto nella scrittura.

Quella pubblicata è la quinta stesura del Pallone di stoffa. Suppergiù una all’anno dalla prima che è, se ricordo bene, del 2016. Cosa è cambiato dalla prima all’ultima? Poco e molto. Poco se si guarda all’impianto: l’indice è quasi lo stesso, i capitoli sono quelli, forse c’è una loro diversa collocazione allo scopo di non far perdere la coerenza di un percorso che è comune alla generazione di intellettuali di sinistra nel secondo Novecento. Cambia molto invece se si guarda all’interno, quando vanno maturando idee differenti sul medesimo argomento. Come dire che alla fine mi sono ritrovato tantum mutatus ab illo. Siamo cambiati contemporaneamente il libro e io: un salto di livello, più profondità di riflessione, più elevata visione globale. Il come si scrive cambia la cosa che si scrive. Ho tolto capitoli sul periodo più recente: potrei aver tagliato un centinaio di pagine per non abusare della pazienza del lettore e dell’editore. Per qualità e completezza del mio ritratto all’interno del quadro in cui ho operato, forse i capitoli esclusi non valgono di meno di quelli editi: e se c’è un senso nel farlo potrei trovargli posto in un volume misto di memoria e saggistica.

Ho eliminato paragrafi su alcune figure esemplari del nostro tempo, compreso qualche esempio negativo. Se in positivo faccio un nome è quello di papa Wojtila, e altresì non è giusto che non appaiano più scrittori delle ultime generazioni. Hanno superato i settant’anni poeti, narratori e saggisti che sono stati accantonati da una logica che privilegia i miei contemporanei. Sono stati miei allievi parecchi romanzieri che sono tra i protagonisti dell’attuale panorama letterario. Insomma la mia autobiografia è sovrabbondante e insieme lacunosa. Il fatto è che ho dovuto procedere ad amputazioni, che però paradossalmente si sono rilevati innesti con cui il testo ha germogliato una superiore qualità di stile. Un critico inglese ha accusato molti narratori di mettere nella minestra i capelli, che poi sarebbero le lunghe spiegazioni in cui annegano fatti che comunicavano di più con la secchezza che non con la prolissità dei particolari, cioè l’analisi sociologica, psicologica, scientifica, religiosa e morale. Ebbene, anch’io ho peccato: nelle prime stesure avevo aggiunto la morale alla favola, dimenticando che ad essa conviene l’essenzialità polivalente. Quando mi sono accorto che avrei reso immangiabile l’autobiografia se non avessi tolto le motivazioni capillari a chiarimento di azioni e dialoghi che erano più eloquenti ed emozionanti con un minor numero di parole. Di stesura in stesura Il pallone di stoffa è dimagrito senza perdere energia: anzi ne ha acquistata tanta da consentirgli una robusta e feconda mobilità che mi ha spinto fuori dalla prosa saggistica abituale.

Contemporaneamente ho combattuto ogni obesità lessicale, grammaticale e sintattica di un testo ingordo. Io pretendo molto dalla mia prosa, la sottopongo alla verifica delle funzionalità di ogni parola, come se fossi uno scrittore. Da quando mi è stato dato di raccontare la mia vita, e perciò di diventare persino un narratore, curo in modo maniacale gli aggettivi: gli attributi debbono aggiungere significati se non vogliono appoggiarsi ai sostantivi come sanguisughe Talvolta mi pare di imitare Pizzuto, che evitava di ripetere una parola giù usata dal testo, visto l’impegno che ci metto per non replicare il già detto. Non sono però come gli uomini che, secondo Bismarck, desiderano festeggiare ogni giorno il loro compleanno: il superattivismo lessicale è frustrante, vinci la battaglia della pagina ma perdi la guerra dell’opera. Inseguo la perspicuità semantica con la sua nemica mortale: la metafora, il traslato con cui fanno ponte idee non pensate. La mia forma cerca il significato più profondo, e lo trova quando è appena nato, cioè concepito in laboratorio ma genuino. Non dia un pessimo esempio il critico che scrive in modo corrivo mentre pretende dai narratori di curare ossessivamente la struttura e la scrittura affinché l’organismo da loro generato aggiunga la conoscenza emozionante grazie alla quale la vita è più ricca di prima.

Così mi piacerebbe che si comportasse la mia autobiografia, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Per fortuna so nuotare nelle parole e mi diverto a scrivere come se giocassi e ridessi. Posso benissimo ridere di me stesso. Non avevi detto che sono un birbante? Considerate la mia autobiografia opera di un monello smaliziato e candido.