La sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale in vigore non resetta solo il premio di maggioranza e le liste bloccate, ma in qualche modo tutta l’esperienza politico-istituzionale della seconda Repubblica. Non a caso, del resto, la Corte ha optato per una sentenza additiva, ed ha scartato soluzioni, pur praticabili, che riportassero in vita la legge Mattarella.
Dal punto di vista temporale effettivamente le lancette tornano indietro di vent’anni. Ma non sempre l’astratta contabilità del tempo misura correttamente l’efficacia di una soluzione. Per cui, al di là delle motivazioni tecnico-giuridiche, è difficile non condividere la condanna definitiva di un intero sistema politico che i giudici costituzionali hanno implicitamente pronunciato.
Prenderne atto non significa necessariamente essere laudatores temporis acti (anche se, nel nostro caso, non mancherebbero prove indiziarie): significa essere semplicemente realisti. E rinunciare a forme di accanimento terapeutico per riportare in vita un sistema in coma.
Ora la parola, come si dice, passa al Parlamento. E’ un mantra simile a quello con cui, quando si è sotto processo, si esprime fiducia nel corso della giustizia. E’ evidente, innanzitutto, che non è questo Parlamento che potrà portare a termine il percorso della riforma costituzionale. Potrà invece, in astratto, legiferare in materia elettorale. Ma perseverare nell’anteporre la legge elettorale alla revisione della Costituzione potrebbe risultare davvero diabolico.
Meglio allora applicare la sentenza così com’è, limitando l’intervento parlamentare alla disciplina del voto di preferenza. Così se non altro il prossimo Parlamento, quando verrà eletto, potrà utilizzare l’articolo 138 senza l’inquinamento del premio di maggioranza. E il nuovo bipolarismo, se ci sarà, non sarà nato con un parto cesareo.