All’ultimo anno di liceo mi appassionai alla figura di Vincenzo Cuoco, il quale, pur considerato un moderato, aveva creduto in una politica di riforme. Osservava Antonio Gramsci: “Vincenzo Cuoco ha chiamato rivoluzione passiva quella avutasi in Italia per contraccolpo delle guerre napoleoniche. Il concetto di rivoluzione passiva mi pare esatto non solo per l’Italia, ma anche per gli altri paesi che ammodernarono lo Stato attraverso una serie di riforme o di guerre nazionali, senza passare per la rivoluzione politica di tipo radicale-giacobino”.
Tuttavia pure le riforme possono venir diversamente concepite, e qui torna attuale la dicotomia attivo/passivo. Le si può immaginare calate dall’alto oppure rispondere a istanze sociali diffuse. Si possono promuovere oppure subire. Dinanzi alle emergenze e alla crisi profonda di fiducia e di credibilità della politica, le riforme che il governo Renzi va delineando rappresentano senz’altro una risposta corretta e auspicabile. Subito dopo, però, si impone la domanda: come evitare una sorta di riformismo passivo? Quali soggetti potranno perseguire con tenacia e consapevolezza un disegno riformatore?
Credere nell’opportunità di promuovere le riforme significa lavorare fin d’ora a restituire un senso alla visione e alle pratiche dei riformisti. Non per amore degli “ismi”, bensì perché convinti dell’importanza della loro iniziativa organizzata.