Il 6 e 7 ottobre prossimi si svolgerà a Torino il convegno internazionale “Economia e Teologia – Per una visione economica solidale”, promosso dal Centro Teologico (fondato nel 1973 da un gruppo di padri gesuiti), dal Centro evangelico di cultura “Arturo Pascal” e dal Centro Studi Filosofico-religiosi “Luigi Pareyson”, con il contributo dell’otto per mille della Chiesa valdese. Fra i relatori, il professor Riccardo Bellofiore, economista dell’Università di Bergamo. Lo abbiamo intervistato.

Pensatori come Salvatore Veca ci esortano a non rinunciare all’immaginazione politica e sociale e a diffidare di coloro per i quali non ci sarebbero alternative. Spesso perdiamo la prospettiva storica, la nozione del divenire. Tante volte gli esseri umani si sono persuasi dell’ineluttabilità della propria condizione e dell’universalità, ad esempio, di teorie e modelli economici, e puntualmente sono stati smentiti dai fatti. Ciò di certo vale anche per i modelli oggi dominanti.

Non credo che sia solo una questione di mancanza di immaginazione politica e sociale. Credo piuttosto che abbia a che vedere con la dura materialità dei rapporti di classe, con l’incapacità della sinistra di analizzare i movimenti del capitale, con una rinuncia talora programmatica al conflitto sociale, con una perdita della dimensione centrale del lavoro e del suo sfruttamento. La frase di Margaret Thatcher (TINA = there is no alternative, non c’è alcuna alternativa) è il suggello di una sconfitta del mondo del lavoro e dei movimenti di contestazione e alternativi degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Questa sconfitta è stata vissuta in modo emblematico qui a Torino con i 35 giorni della Fiat, tra il settembre e l’ottobre del 1980. È una sconfitta che non viene dal nulla, ma da una lunga costruzione di quel modello che è stato chiamato “neoliberismo”, e dalla crisi del cosiddetto modello fordista-keynesiano (una crisi che viene anche “da sinistra” e “dal basso”). Credo che oggi si dovrebbe riprendere non solo una critica del neoliberismo un po’ meno abborracciata di quella esistente, ma anche una critica del keynesismo.

Mi pare che il limite della parola “neoliberismo” sia nel comprendere tendenze e fenomeni anche assai diversi, dalle politiche di Margaret Thatcher a quelle di Angela Merkel. Cos’è davvero il neoliberismo?

Questo è un nodo cruciale. Il neoliberismo è stato troppo spesso identificato con il monetarismo, e con il ritorno al laisser faire. Nulla di tutto ciò. Il neoliberismo non è liberista, non solo perché il liberismo non è mai esistito, ma anche perché si tratta di un progetto di costruzione politica di un diverso Stato, non di un fantomatico libero mercato. L’esperimento monetarista è durato pochissimo, dal 1979 al 1982. Restrizioni monetarie, alti tassi di interesse, caduta degli investimenti; compressione della spesa pubblica (soprattutto sociale), riduzione delle imposte a favore dei ceti abbienti, attacco al sindacato, declino della quota dei salari, e dei consumi dal reddito. Le condizioni di un crollo per insufficienza di domanda, per il ripetersi di una dinamica come quella degli anni Trenta del Novecento, si sono riprodotte abbastanza presto, ed in modo esplosivo: basti pensare, nel 1982, alla crisi del debito dell’America Latina, che indusse Reagan a un drastico cambio di politica economica. Il neoliberismo vero e proprio ha lì la sua data di nascita, con una svolta verso quello che, con altri autori, chiamo ‘keynesismo privatizzato’. Prima le guerre stellari e la spesa militare, che crea negli Stati Uniti il doppio disavanzo (interno ed esterno). Poi l’era Greenspan. Al lavoratore traumatizzato si accompagna presto l’entusiasmo dei risparmiatori, che vedono apprezzarsi le loro attività finanziarie e immobiliari grazie a una politica monetaria che De Cecco ha denominato del banchiere centrale quale lender of first resort. Quando i prezzi dei titoli o delle case vanno su, il valore dei risparmi accumulati va su anch’esso, e fasce sempre più ampie di risparmiatori entrano in uno stato ‘maniacale’, e risparmiano sempre meno del loro reddito; ma costoro rischiano di entrare in fase ‘depressiva’ quando il meccanismo si blocca, e a quel punto la loro paura innesca il fenomeno noto come deflazione da debiti (tutti riducono la spesa per uscire dal debito, finendo invece sempre più indebitati). Di lì, dal combinato disposto del lavoratore traumatizzato e del risparmiatore maniacale-depressivo, ha origine il consumatore indebitato (si consuma a fronte del capitale che si è valorizzato, o sfruttando le più facili condizioni di indebitamento). È stato questo il traino dei modelli neo-mercantilisti in giro per il mondo (anche da noi), sopperendo così  ai bassi consumi da salario, agli insufficienti investimenti, al tentativo (che si sopprime da solo) di comprimere i deficit pubblici. È essenziale capire che la finanza perversa è stata essenziale per la dinamicità di questo modello, che tutto è stato meno che stagnazionistico (come crede il sottoconsumismo di molti sedicenti keynesiani, o di quei marxisti che sostengono la tesi della caduta tendenziale del saggio del profitto). Il problema dunque non è solo quello di troppa ineguaglianza e poca domanda: è, più fondamentalmente, del tipo di rapporto tra finanza e produzione; è questo che ha fatto credere che l’ineguaglianza fosse un bene per la crescita, e che ha spinto verso l’alto la domanda una bolla dopo l’altra. Insomma, il neoliberismo è un modello politico nutrito da una ridefinizione (non da una cancellazione) del ruolo dello Stato e della politica economica, e per combatterlo bisogna conoscerlo per come è davvero.

In Italia (forse più che altrove) vi sono, fra gli altri, due problemi di fondo: le notevoli dimensioni della cosiddetta rendita parassitaria (e qui vengono in mente le analisi di Thomas Piketty) e i forti tratti corporativi della nostra società, con il corollario di fenomeni quali la corruzione e il clientelismo. Come provare a uscirne?

Il problema della rendita è un problema di sempre, in Italia ma anche altrove: e ahimè, senza rendita non ci sarebbero stati sviluppo e occupazione. Sogna chi pensa che ci sia una finanza cattiva e una impresa buona. Come ho detto, la diseguaglianza, problema serissimo, non è però il nodo della questione. Così corruzione e clientelismo. Il punto chiave è che sono crollati sia il modello keynesiano postbellico, che si fondava sulla spesa militare o generica (gli aspetti positivi di quel modello sono venuti dalle lotte sociali e operaie che lo hanno messo in crisi!), che quello keynesiano privatizzato. Quest’ultimo si basava su una inflazione nei mercati finanziario e immobiliare che determinava, per un verso, la “sussunzione reale” del lavoro al capitale (ovvero, una incorporazione subalterna delle famiglie dentro la finanza e dentro il debito bancario: è il capitalismo dei gestori finanziari, il money manager capitalism); e per l’altro verso una “centralizzazione senza concentrazione” (il comando capitalistico si concentra, ma le imprese non si concentrano: vi è una dispersione e frammentazione dei lavoratori, magari nella forma paradossale dell’in house outsourcing). Per uscirne bisogna rovesciare la logica, e ricominciare a pensare in grande: non è una crisi qualunque, non basta un po’ meno di austerità, di spesa pubblica purchessia, di finanziamento bancario. Occorre, più specificamente, una ‘socializzazione dell’investimento’ (ovvero, una diretta creazione di valori d’uso sociali da parte dello Stato), una socializzazione dell’occupazione (un ‘piano del lavoro’ e lo Stato come occupatore diretto non residuale ma in prima battuta), una socializzazione della banca e della finanza. Insomma, una spesa pubblica che ritorni ad essere il motore della crescita, ma in forma del tutto inedita, secondo modalità molto diverse da quelle del keynesismo. Un paragone semmai potrebbe trovarsi, con qualche distinguo, nel New Deal. Roosevelt non amava i deficit pubblici, invece sono la condizione di una spesa pubblica attiva. E Roosevelt, come Keynes, voleva salvare il capitalismo. Invece il punto è di fare un passo deciso verso una forma di socialismo.

Crede che il reddito di cittadinanza, magari nella forma di un salario di ingresso nel mondo del lavoro, rappresenti una strada percorribile anche nel nostro paese?

Non credo. Innanzitutto si dovrebbe parlare di reddito (universale) di esistenza: in termini rigorosi, si dovrebbe intendere un sussidio monetario erogato a tutti – e quando dico tutti, intendo tutti: da Marchionne (ammesso e non concesso che i suoi redditi li percepisca in Italia) al precario o al disoccupato. Il che, per funzionare, richiederebbe un sistema fiscale altamente progressivo e senza evasione o elusione. Fantascienza. Sotto quel nome si contrabbandano sussidi ai precari, ai giovani, a fasce particolari, che riproducono un fenomeno noto dai tempi della rivoluzione industriale: una corsa al ribasso dei salari (tanto c’è il sussidio), l’odio tra poveri, la riduzione dei poveri a mendicanti. È quello che, ancor più di Marx, è stato stigmatizzato da Polanyi ne La Grande Trasformazione. Bisogna invece creare lavoro, un lavoro dignitoso e di qualità, mirando con determinazione alla piena occupazione con lavoro fisso e un salario ‘decente’ (solo con piena occupazione permanente la flessibilità gioca a favore dei lavoratori, qualche volta), e risolvere così il problema del reddito da lavoro. Invece tutta la sinistra, moderata e non, assume come un dato di natura la fine del contratto di lavoro a tempo indeterminato, o il precariato (ci sono poi addirittura quelli che vedono nel basic income l’uscita dalla gabbia del lavoro: follie). Sto pubblicando con Laura Pennacchi un libro di Minsky,  Ending Poverty: Jobs Not Welfare, molto chiaro su queste cose. Più che sussidi, poi, lo Stato dovrebbe intervenire con forme di retribuzione in natura: la scuola, l’assistenza sanitaria, e così via. Una economia di piena occupazione e alti salari, ovviamente, non patirebbe le costrizioni finanziarie alla spesa pubblica che (sulla base di dottrine economiche false, anche se dominanti) ci vengono messe davanti un giorno sì e l’altro pure. Ci si può chiedere se questo sarebbe un capitalismo sostenibile: io credo di no. Proprio per questo, però, il nodo sul tappeto è immaginarsi una forma sociale oltre il capitalismo, da costruire attraverso un soggetto sociale alternativo, plurale, con lotte dal basso, in un periodo, che si prospetta lungo, di incertezza e sprofondamento nella crisi. In qualche misura non è lontano dal modello di Gramsci nelle Tesi di Lione. Solo che non abbiamo nessuna mappa della transizione e del conflitto. Si tratta di opporre al senso della realtà il senso della possibilità di cui parlava Musil. Purtroppo la discussione, soprattutto in Italia, è lontana da questi temi.