Nonostante gli sforzi perpetrati dalle Penne Armate, quel variegato esercito di giornalisti sempre solerte nel difendere le forze dell’ordine in barba a qualsivoglia ragione, il caso Cucchi non può essere relegato a semplice vicenda di cronaca giudiziaria. Se accusa e parte civile convergono nel denunciare gli abusi di un corpo dello Stato, il fatto in sé assume una rilevanza politica oggettiva, e come tale va trattato. Non è neppure vero, come scrivono alcuni pennivendoli, che le sentenze in un ordinamento democratico e rispettoso della separazione dei poteri vadano comunque tacitamente accettate: non è vero, in primo luogo, perché la democrazia è dibattito e pluralismo, e le scelte di un giudice – per quanto rispettabili – non sono frutto dell’infallibilità divina, ma di un’interpretazione più o meno azzeccata dei fatti; non è vero, in secondo luogo, perché la sentenza in questione non è definitiva, essendo stato celebrato soltanto il primo grado del processo; e non è vero, altresì, perché la tutela dei diritti dell’uomo, anche fosse un uomo carcerato, travalica i confini del politicamente corretto e si assesta nell’ambito delle libertà fondamentali, peraltro riconosciute costituzionalmente.
Un dato è certo: Stefano Cucchi è stato arrestato perché in possesso di sostanze stupefacenti, 20 grammi di hashish e qualche pasticca possono costare la vita in un paese occidentale che si ostina ad adottare un’insulsa logica proibizionista. Arrestato nella notte fra il 15 ed il 16 ottobre del 2009, il 22 Cucchi è deceduto su un grigio tavolo, il corpo tumefatto e pieno di lividi. Basta guardare le foto per capire quanto quel ragazzo abbia potuto soffrire. Tra 90 giorni usciranno le motivazioni che hanno spinto i giudici ad assolvere gli agenti Nicola Menichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici, accusati di violenza nei confronti del defunto. Valutando le prove fornite nel dibattimento, chi scrive è curioso di analizzare i dettagli della sentenza, fosse anche solo per capire quale grave responsabilità ricade sui medici ritenuti colpevoli di un “tragico errore sanitario”, da Aldo Fierro a Silvia Di Carlo.
Essendo un caso politico, però, dobbiamo volare più in alto. E’ lecito chiedersi: cosa dovrebbe fare il Parlamento di fronte ad una spinosa vicenda come questa? Come può la classe dirigente rispondere dell’accaduto? Innanzitutto l’etica e la pietas dovrebbero indurre alla prudenza certi arditi commentatori. L’ex ministro Giovanardi, ad esempio. Uomo di Chiesa e pio cavaliere degli atti di dolore, avrà anche avvertito l’esigenza di sottolineare come le sue interpretazioni passate, tanto vituperate dall’opinione pubblica, fossero in realtà puntuali e non viziate da pregiudizi di sorta. Va bene: se il Palazzo di Giustizia gli ha dato (momentaneamente) ragione, resta però l’umano scetticismo e lo sconcerto nei confronti della tempistica e dei toni. I politici, si presume, dovrebbero fornire un esempio e non uno scempio di tal portata.
La Boldrini e Grasso, per parte loro, sentite le diverse forze politiche, potrebbero vagliare l’ipotesi di istituire una Commissione d’indagine volta a chiarire i fatti con audizioni pubbliche del ministro competente. C’è di mezzo la dignità dello Stato, un dettaglio che non può essere trascurato né affrontato marginalmente.
Il governo, infine, potrebbe gettare il cuore oltre ogni ostacolo e dimostrare di non essere retto da un immondo spirito di sopravvivenza: potrebbe cioè rilanciare in Parlamento una grande battaglia civile, che impone, oggi più che mai, l’introduzione del reato di tortura da codificare nel nostro impianto normativo. Sono tre piccoli passi che potrebbero offrire l’esempio di un nuovo modo di concepire la sfera pubblica, anche per sfuggire ad un tremendo paradosso, ormai stridente e di banale evidenza: quello di chi assiste a zuffe parlamentari volte ad accertare improbabili parentele di Mubarak, salvo poi disinteressarsi della morte di un ragazzo avvenuta in circostanze assai sospette all’interno di una delle tanto vergognose carceri italiane.
Il caso Cucchi si inquadra nel solito disegno di isterica rabbiosa esibizione di vittimismo nei confronti delle forze dell’ ordine. Appartiene allo stesso filone socio-cultural-politico del recente caso del ferrarese Aldrovandi ed a quello di tanti altri “bravi ragazzi” di “sinistra”, compresi i “Blak blok” di Genova e senza omettere quello di quel tizio che si è beccato una pistolettata dal Carabiniere che si è difeso mentre era stupidamente fatto bersaglio del lancio di un estintore.
Questo non vuol dire che tra i “questurini” non ci siano anche dei cretini. Ci sono sicuramente, nella stessa percentuale – sui grandi numeri – che si riscontra anche nei loro “antagonisti”. Il caso Cucchi è stato presentato appassionatamente dalla sorella che oltre alla ossessiva esibizione dello scontato sentimento di sgomento per la perdita del familiare ha saputo ben coinvolgere quel movimentismo antigovernativo (contro qualsiasi governo italiano, a prescindere) che fonda le sue tradizionali radici nella presa di posizione nelle lotte di operai e braccianti contro “la polizia che è sempre e per definizione “dalla parte dei padroni”; che è proseguito con l’ antiamericanesimo dettato dalla sudditanza del PCI al finanziamento Sovietico e che, in assenza di veri motivi di contestazione ideologica e di schieramento, prosegue ora per “riflesso condizionato” o automatismo d’ inerzia appigliandosi ad ogni caso si presti ad essere trasformato in effimera bandiera per giustificare la costituzione di una associazione che possa andare in TV, che possa accedere a pubblici finanziamenti e che possa dare quel tanto di “visibilità” per sorreggere qualche candidatura in Parlamento … comprese le candidature di chiunque si qualifichi come “vittima” diretta o indiretta di qualcosa di notevole: dagli attentati di mafia a quelli delle BR, dal mistero di “Ustica” all’ incidente sul lavoro di “Teksid”, dagli scontri “Genova-noglobal” alla “malagiustizia”; e senza dimenticare il singolarissimo “caso Calipari” che comunque è emerso in un contesto di accusa al bieco militarismo imperialista americano che non rinuncia alla sua giurisdizione sui suoi assassini, nè in Irak e neppure sul italico suolo del Cermis.
Vittimismi tutti che valgono grande merito per riempire le Camere di vedove, madri, figlie di eccellenti caduti.
Tornando al “caso Cucchi”, conosciamo il referto di partenza e quello di conclusione; ma non sappiamo nulla delle tante e provocatorie azioni e reazioni che si sono svolte nella relazione personale tra un soggetto (Cucchi) sicuramente di non facile “gestione” in una struttura per sua natura costrittiva e limitativa della libertà del detenuto e gli altri soggetti interagenti (Polizia penitenziaria, medici e paramedici) che svolgono un compito difficile in un ambiente popolato di persone ad essi ostili e sovente dal comportamento non comprensibile e non prevedibile.
In attesa delle motivazioni della sentenza, il preconcetto ed “ideologico” favor per Cucchi vale quanto il prudente non-giudizio sul verdetto dei giudici del caso vero.
Marco Preioni marcopreioni@libero.it
Neanche a me piace il vittimismo. E non apprezzo quell’associazionismo dei “parenti delle vittime” che talvolta pretende di sostituire con un’ordalia il giusto processo. Ma non vedo che cosa c’entri il caso Cucchi. Forse è utile, quindi, tracciarne un breve riassunto. Cucchi viene arrestato a casa sua (non in piazza) perchè in possesso di una piccola quantità di droga (non per avere colpito un carabiniere con un estintore). E’ vittima di una legge (la “Fini-Giovanardi”) mal concepita e peggio applicata. Passa la notte in camera di sicurezza, e la mattina dopo viene portato in Tribunale per la convalida del fermo. In quel lasso di tempo finisce in condizioni fisiche tali da consigliarne il ricovero in un ospedale che indegnamente porta il nome di Sandro Pertini. Qui chiede inutilmente di parlare coi familiari e l’avvocato, e di conseguenza comincia lo sciopero della fame che lo porterà alla morte. Si tratta di un suicidio? Oppure Cucchi è morto di freddo?
Certo, la responsabilità è innanzitutto di una legge criminogena: e se i legislatori – come è giusto – non sono sanzionabili penalmente, ma solo politicamente, sarebbe opportuno che chi ha criticato la sentenza della III Corte d’Assise del Tribunale di Roma protestasse anche contro una legge che riempie le carceri di tossicodipendenti. Ma poi vanno verificate le responsabilità di chi lo ha arrestato, di chi lo ha interrogato in Tribunale, di chi lo ha tenuto in detenzione, e infine di chi, in ospedale, non gli ha consentito di avere contatti con l’esterno. Può darsi che la sentenza, in base agli elementi di prova, non potesse essere che quella che è stata. Ma allora sarà bene condurre una nuova istruttoria, meno rispettosa di uniformi, di toghe e di camici bianchi.