Ero tra gli oratori al convegno su «Decisione e processo politico» tenutosi il 12 giugno a Palazzo Marini – su iniziativa e con l’organizzazione impeccabile di Fondazione Socialismo – per ricordare i 30 anni dall’avvio del governo Craxi. Il tema é certamente tra i più attuali nel marasma che contraddistingue la nostra classe politica, retrocessa a comprimaria dal copioso ricorso ai «tecnici», con la conseguenza di una perdita di prestigio e di peso non solo presso la nostra opinione pubblica ma soprattutto all’estero (caso Battisti e dei marò). Facile immaginare quanto ciò sia pregiudizievole in una fase dominata dalla speculazione finanziaria internazionale, pessimamente mediata da un Esecutivo di Bruxelles assai piu’ gendarme della stabilità che promotore di sviluppo. Che é invece l’unica soluzione per uscire dalla situazione di degrado economico e sociale in cui si immergono sempre più il nostro ed altri paesi europei.
Nel mio intervento ho ricordato l’opera condotta quasi in solitario da Bettino Craxi nel vertice di Tokio del maggio 1985, quando riuscì a far attribuire al G7 il compito della sorveglianza multilaterale economica per contrastare gli squilibri delle bilance dei pagamenti, di cui era figlio il disordine valutario di allora. Roba per tecnici? Forse per i più, ma non per Craxi, che mal sopportava che il nostro paese, all’insaputa della stessa opinione pubblica, «pagasse i conti», in termini di interventi sul mercato valutario, per pilotare una caduta del dollaro altrimenti troppo brusca. E ciò senza far parte del «direttorio» che chiedeva alle Banche centrali dei sette paesi più industrializzati, e quindi anche al nostro Istituto di emissione, di compiere in maniera coordinata quegli interventi.
La decisione di Tokio non era di poco conto. Essa fu presa solo grazie all’autorevolezza con cui Craxi, distanziandosi dall’atteggiamento passivo dei ministri degli Esteri e del Tesoro del suo governo (Andreotti e Goria, i quali temevano la «brutta figura»), e soprattutto, contrastando l’ostilità di Francia e Regno Unito, riusci, col sostegno di Reagan, a far riconvocare il gruppo dei ministri finanziari che con parole gentili per gli esclusi aveva in pratica confermato le prerogative dei «Cinque». Decisionismo personale per soddisfare il proprio ego o per conseguire rendite di posizione per altri obiettivi? Arbitrario affermarlo, essendo in gioco chiari interessi del paese e il bisogno di recupero di considerazione, troppo spesso dimenticato da “Grandi” abituati a dare per scontato il nostro assenso alle altrui decisioni.
Si potrebbero ricordare la vicenda di Sigonella ovvero il monito lanciato a Lisbona («Il sistema missilistico franco-britannico non si trova sulla luna»), occasioni in cui in cui l’allora presidente del Consiglio fu costretto dalle circostanze ad esercitare il “decisionismo” per non far dimenticare al «grande Alleato» che nel primo caso la violazione flagrante della sovranità non era condonata a priori dall’appartenenza alla Nato, e nel secondo che la decisione di dispiegare i Cruise a Comiso non doveva essere confusa per una cambiale in bianco ; ed altro ancora si potrebbe ricordare in politica estera, non certo per mostrare i muscoli di Craxi o evocare gli “stivali “ di Forattini, che scambiava autorevolezza con autoritarismo, ma per rendere pubblici i molti momenti in cui egli tutt’altro che decisionista si macerava nel dubbio tra rifugiarsi nella conventional wisdom oppure uscire dal coro, spesso in maniera sofferta, prendendosi il rischio di interpretare il profondo sentire della nazione, i suoi valori e i suoi interessi.
Ma non si può accettare, per chi quelle esperienze ha avuto il privilegio di viverle, il sospetto emerso tra alcuni oratori del convegno che tutto ciò fosse dettato da mania di protagonismo, ovvero da una visione personale o prettamente politica e quindi per spirito partitico; né si puo’ accogliere la critica sottesa che per l’esercizio di quel decisionismo sarebbe stato più corretto che egli si fosse dovuto impegnare per incanalarlo sulla via istituzionale. Ma di quale Italia si parla? Un paese, non dimentichiamolo, in cui molto era lottizzato, in cui si chiudevano gli occhi per non dover riaprire il discorso degli equilibri, in cui si accettavano eccessi ed errori che avevano un costo per il paese, nel nome di un acritico europeismo o atlantismo (come fossero dei dogmi); un paese il cui sistema creditizio, salvato grazie ai risparmi degli italiani, si reggeva su di una finanza di salotto, la cupola Cuccia, composta da personaggi di bassa statura internazionale che per legittimarsi erano diventati assidui frequentatatori della Trilaterale, una istituzione che ha fatto da sponda ai «poteri forti», e di cui oggi si avverte intera la forza disgregatrice : una cupola che condizionava la politica e che certamente non avrebbe permesso la nascita di Istituzioni forti la cui mancanza Craxi, al contrario, rimpiangeva ogni volta che, costretto dagli eventi, doveva macerarsi per lanciare dei segnali che alla fine ha pagato con la vita.