Quindici anni fa, in una nota per L’indice dei libri del mese, Franco Rositi osservava che “fra il 1996 e il 1998, dopo decenni di rimozione, sembrava fosse restituita la dignità di grande questione pubblica al tema del reclutamento e della selezione delle élites influenti sugli affari pubblici e sugli affari sociali: un convegno della rivista Reset a Napoli nel gennaio 1996 poneva, in particolare per merito di Franco Ferraresi, il nesso fra istruzione, civiltà e formazione dei ceti dirigenti; poi il convegno del Pds a Milano, nel gennaio 1997 (‘Assise sulla formazione degli italiani’) includeva una sezione su meritocrazia e potere; nel giugno del 1997 il Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale organizzava a Saint-Vincent un incontro su ‘Élites e valori’; nel 1998 infine l’Università di Torino dedicava due giorni al tema ‘La formazione delle classi dirigenti’. Ma i cerchi concentrici dell’attenzione pubblica si sono presto esauriti”. (Sulle virtù pubbliche. Cultura comune, ceti dirigenti, democrazia, Torino, Bollati Boringhieri, p. 65-66).
Non è dato sapere quali e quanti “investimenti” siano stati fatti alla luce di quelle riflessioni. Ma forse non molti, a giudicare dalle pentole scoperchiate in anni più recenti dalla magistratura contabile e ordinaria nelle più varie assemblee e partecipate delle Regioni e dei Comuni, nonchè al Mose di Venezia, all’Expo di Milano, a “mafia-capitale”, e perfino ai “santuari” storici in Umbria e in Emilia: fino alle pratiche selettive delle primarie del Pd a Napoli, a Roma, in Puglia, in Liguria, eccetera.
Viene da pensare che (anche) su questo versante si sia riproposta una vicenda antica nel Bel Paese: si avverte l’esistenza e l’urgenza di una questione, si affronta e sviscera il “problema” in convegni e in scritti nei tempi giusti, e poi, anni dopo, si constata che le cose sono andate in un altro modo, che “le idee” sono (rimaste) “astratte” (buone, magari, per le “anime belle”), e che la “politica” ha preso strade e caratteri anche opposti, affidata com’è ai “pratici” (e a chi d’altra parte?).
Ora che la crisi verticale dei partiti che hanno segnato la seconda Repubblica ne sta rottamando i gruppi dirigenti con rapidità e in misura forse non previste a suo tempo neppure da Matteo Renzi (motus in fine velocior), e che i nuovi profili dei soggetti e degli scenari in Europa e nel Mediterraneo impongono (anche) all’Italia di poter contare su personale non improvvisato né inconsistente, è facile prevedere che si dovrà affrontare nell’emergenza quanto trascurato negli anni della rendita di posizione e della dilapidazione delle risorse. Stando attenti peraltro ad affidarsi ai primi attori del circo mediatico, che nella storia dell’Italia moderna, con classi dirigenti disorientate o allo sbando, hanno già avuto modo di fare molti danni: come potrebbe essere accaduto di recente al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni nel definire “l’urgenza” e “l’attualità” di analisi e di scelte.