Sono andato con curiosità a vedere il film di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer, che consiglio vivamente a tutti. Ovviamente le interpretazioni non sono mai univoche e sono sempre filtrate dal proprio percorso personale.  Preciso il mio. Per la generazione di cattolici democratici che si è formata a metà anni ’70 avendo come riferimenti Zaccagnini e Moro (cioè non il partito democristiano come tale, ma – per rifarci alla distinzione di Pietro Scoppola – un’identità cattolico democratica che si rapportava positivamente con la sinistra Dc) il Pci di Berlinguer era senz’altro l’espressione di un movimento storico con molti aspetti positivi, ma che aveva ancora elementi di connessione con un’ideologia ormai datata. “La duttilità tattica non rimetteva in causa la finalità rivoluzionaria”, come ha scritto in  seguito, nel 1990, Gilles Martinet, ambasciatore francese a Roma nominato da Mitterrand, nel suo splendido libro  “Les Italiens”, che dedica un ampio capitolo a Berlinguer anche con alcuni dialoghi personali.
Per questo ci capitò di difendere la solidarietà nazionale sia dagli attacchi dell’estrema sinistra (piuttosto virulenti nelle scuole), sia dai settori conservatori, molto forti nella Chiesa, che la vedevano come una parentesi da chiudere prima possibile. Ci dispiacque per l’Italia il fatto che quell’esperienza durasse così poco, e che – giunto alle soglie del governo – il Pci poi si ritraesse e imboccasse alcune derive identitarie, che non rendevano ragione anche di buona parte della sua esperienza concreta di attenzione quotidiana alla realtà del paese, specie nella cosiddetta zona rossa.
Collaborando alla Presidenza della Fuci dal 1981, lì avevamo anche un canale di comunicazione riservato con il Pci grazie ad un ex-gesuita, Francesco Demitry, col quale il rapporto (chiaramente impostato tra diversi, ma era significativo che fosse cercato) era scorrevole, ma che ebbe un punto di divaricazione molto forte, già sotto Berlinguer, rispetto al decreto di S. Valentino, che condividevamo perché ci sembrava del tutto omogeneo alle strade percorse dai governi europei pro-labour.
Per queste ragioni a me sembra che il film renda bene l’equilibrio tra il giudizio positivo sullo spessore della persona e però anche l’incapacità della leadership del Pci di imboccare fino in fondo non una generica Terza Via tra comunismo e socialdemocrazia ma la piena adesione a quest’ultima. Lo si coglie bene, specie nei momenti finali del film, con i giudizi, pur diversi, dei vecchi del Pci che ammettono però tutti come quel partito fosse in realtà privo di futuro già alla morte di Berlinguer. Il passaggio forse meno scontato del film.
Forse avrei segnalato di più l’importanza della rottura sindacale del 1984 (ce n’è traccia solo nel comizio finale) che lasciò in eredità al Pci post-Berlinguer il referendum del 1985, la prima dura sconfitta degli anni seguenti, e la solitudine europea delle elezioni del 1984, quando l’eurocomunismo era già morto e sepolto. Nel film vediamo solo la conferenza stampa con Carrillo e Marchais che prepara le elezioni del 1979. Ma quando si arriva a quelle successive, di cui il comizio di Padova è una tappa importante, Carrillo ha perso il controllo del Pce lacerato tra correnti ormai incomponibili, un partito divenuto marginale dato che i socialisti di Felipe Gonzalez governano da soli la Spagna, mentre Marchais ha da tempo  riportato il Pcf a un’ortodossia filo-sovietica che sta spingendo Mitterrand a escludere dal Governo i suoi ministri, peraltro confinati dal 1981 a ruoli assolutamente marginali. Detto questo: andate a vederlo e fatevi la vostra idea.