Riscrivo rapidamente la notizia, seguendo gli interventi, in questa rivista, di Covatta ed Acquaviva sulla “rinuncia” del Papa. Libération ha posto una domanda essenziale: “A cosa pensa un Papa?”. A cosa pensava Benedetto XVI?
Forse c’è un’articolazione complicata, che dovremmo seguire, una certa teologia politica, che si inscrive nella “rinuncia” di Benedetto XVI, di questo Papa di transizione. Un certo modo di pensare Dio, e di pensare il potere.
Un Papa pensa Dio come un pensiero impossibile, incessante, non-pensato. Il Papa, per definizione, non può che pensare Dio in un solo modo: Dio c’è, il y a. Ossia pensa Dio come «impossibilità di non essere, l’insistenza incessante del neutro, il brusio notturno dell’anonimo» (Blanchot). Il Papa può soltanto pensare: Dio c’è. Per un Papa, Dio è qualcosa di simile all’anonimo essere di “piove”. Il Papa si rivolge a Cristo, ma mai a Dio: «non si definisce Dio», ha scritto Benedetto XVI (J. Ratzinger, Chi ci aiuta a vivere?, 2006).
Nessun altro pensa Dio in questi termini. Per gli altri, per tutti noi, Dio è un problema, ossia una possibilità: di creare concetti, come accade ai filosofi che parlano di Dio (da Agostino a Spinoza, da Hegel a Maritain), di creare dei quadri, come nella pittura “religiosa”. Deleuze lo spiega benissimo: Cristo serve a El Greco per pensare la pittura, per liberare colori e forme  («È il grande affrancamento delle linee e dei colori che si compie col favore di quest’apparenza: la subordinazione della pittura alle esigenze del cristianesimo»). Grazie a Dio, in virtù di Dio, cioè, noi possiamo essere atei.
Per un Papa non è così: Dio non gli è disponibile come una possibilità di creazione. Un Papa deve sopportare il “c’è” di Dio, questo essere-anonimo che rende impossibile la morte, impossibile ogni compimento. Questo Dio che, dunque, non è neppure un “soggetto”. Per questa ragione sarebbe poca cosa domandarsi se il Papa creda all’esistenza di Dio. Il Papa non può credere all’esistenza di Dio, poiché per lui Dio non esiste, ma, diversamente, c’è.
C’è come “neutro”, come disastro, direbbe ancora Blanchot. C’è come impossibile presenza, come l’Altro. Il compito di un Papa è sempre, allora, passività, pazienza, ossia «responsabilità infinita davanti l’infinito dell’altro» (Lévinas): è la pazienza di essere cancellato da Dio, la passività di sopportare infinitamente che l’alterità usuri il suo “io”, il suo essere “soggetto”. Così Benedetto XVI: «il cambiamento del soggetto include un elemento di passività, che Paolo designa a ragione come morte, come partecipazione all’evento della croce. Può capitare soltanto dall’esterno, come proveniente da altro» (J. Ratzinger, Teologia e Chiesa, 1986). C’è dunque un «passivo del divenire cristiano», scrive ancora il Benedetto XVI, una «santa passività» (heilige Passivität)
Nessun Papa, sembra dirci Ratzinger, può dire: “Io”. Così nelle parole di Paolo di Tarso: «Vivo, tuttavia, non vivo più io» (Galati 2,20). Lo ha costantemente ripetuto anche Benedetto XVI: «L’io smette di essere un soggetto autonomo, che ha in se stesso la sua propria consistenza. Viene strappato a se stesso, e inserito in un nuovo soggetto. Non che l’io scompaia semplicemente e definitivamente; deve lasciarsi cadere, perdere, per poter poi riceversi di nuovo in un io più grande, e insieme con questo» (J. Ratzinger, Teologia e Chiesa, 1986). L’io del soggetto deve passare per un non-io, scrive il Papa, passare per l’alterità di un Tu eterno, anonimo, incessante, per il corpo di Cristo. La teologia politica di Benedetto XVI rovescia il Papa di De Maistre, che è anzitutto Soggetto forte (S. Amato): «nessuna sovranità senza Papa, nessuna unità senza sovranità, nessuna autorità senza unità, nessuna fede senza autorità».
Con Benedetto XVI, il «soggetto diventa la parola di Dio» (cfr. l’omelia del Papa del 6 dicembre 2009, con la lettura di Luca, 3, 1-6), diventa la parola dell’altro. Il Papa è infallibile, ma lo è nella cancellazione del suo essere soggetto: «proprio nel conferimento a un uomo della funzione di roccia, diventa chiaro che non sono questi uomini [i Papi] che sostengono la Chiesa, ma solo Colui il quale la sostiene, più nonostante gli uomini che attraverso di essi».
Un Papa come Benedetto XVI non poteva rifiutare. Rifiutare, infatti, è ancora coscienza, è ancora attività, è ancora decisione di un “Io” che si pretende soggetto e sovrano. Il Papa è sovrano, sovrano assoluto, in quanto è pura solitudine, pura passività: in quanto è “ostaggio”, sempre sostituibile. Il Papa non può essere mai un Io che rifiuta.
Per questa ragione Benedetto XVI non ha rifiutato, ma ha chinato il capo al potere della Chiesa, si è lasciato consumare dall’io ecclesiale. È questo il senso delle parole del Papa: «Lascio per il bene della Chiesa»? C’è un discorso di potere il quale andrebbe chiarito, interrogato. Discorso che forse, come si è di recente sottolineato, va ritrovato nel rapporto tra primato e collegialità e nel problema delle “chiese locali” (cfr. H. Pottmeyer, Primato-Collegialità episcopale nella ecclesiologia eucaristica di H. Ratzinger, 2008). Per Ratzinger vi è solo un soggetto, «l’unico-soggetto Chiesa, che il Signore ci ha donato. È un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo steso, unico soggetto del popolo di Dio in cammino» (22 dicembre 2005).
Non cerchiamo una lettura teologica, che non ci compete. Piuttosto, occorrerebbe decifrare la teologia politica che in essa è implicata, una profonda – per quanto inudibile e lenta – modificazione dell’ultima teoria moderna della sovranità assoluta.