1987: alla vigilia delle elezioni politiche scrivo in un tema d’italiano, in quinta ginnasio, che si sarebbe forse aperta una legislatura costituente. Invece fu l’inizio della fine ingloriosa della prima Repubblica.
Già da anni, del resto, il Centro per la Riforma dello Stato, incarnato da Pietro Ingrao, proponeva il dimezzamento del numero dei parlamentari e Nilde Iotti si batteva per un modello unicamerale, come in Finlandia. Furono le resistenze trasversali conservatrici del ceto politico a bloccare le riforme, più che il contrasto sul ruolo dei poteri legislativo ed esecutivo. Il “decisionismo” di Bettino Craxi non fu il motivo dell’impasse. No; fu un tentativo di risposta a esso. Aggiungo che, in seguito, le stesse pulsioni neoautoritarie e sovente antipolitiche del Cavaliere hanno rappresentato delle risposte inefficaci e maldestre allo stallo. E non, come vorrebbero Paolo Flores d’Arcais e altri, la fonte di ogni male.
Qual è l’origine, in definitiva, della nozione di “casta”? È probabilmente da rinvenire nel connubio fra una società dai tratti ancora marcatamente (neo)corporativi e un assetto politico irriformabile.
La stessa incapacità odierna ad avviare un processo costituente è il sintomo di un’inettitudine profonda, celata con vane fughe in avanti. E intanto la domanda politica si atomizza, i “minimi” varcano la soglia dell’indigenza e la middle class è in grave sofferenza.