Il 6 e 7 ottobre, presso il Salone della Casa Valdese di Torino si è svolto il Convegno internazionale “Economia e Teologia. Per una visione economica solidale”, promosso dagli enti torinesi Centro Teologico, Centro Evangelico di Cultura “Arturo Pascal” e Centro Studi Filosofico-religiosi “Luigi Pareyson”; il Convegno è stato realizzato con il contributo dell’otto per mille della Chiesa Valdese.
Scopo del Convegno è stato quello di ragionare sul rapporto tra Economia e Teologia, per dare voce a una riflessione critica sull’Economia che, come recita la locandina, dopo aver ridotto tutti gli aspetti della vita a un’analisi costi/benefici per la massimizzazione dell’utile personale, ha “travalicato il suo abituale ambito di competenza, proponendosi come ideologia dominante e rivendicando una funzione regolatrice che condiziona ogni decisione nell’ambito dell’agire umano, sociale e politico”.
La prima giornata è stata dedicata alle teorie economiche, in particolare al neoliberismo; ad una sessione di questa prima giornata, intitolata appunto “Il modello neoliberista e i suoi critici”, ha partecipato come relatore Riccardo Bellofiore, economista dell’università di Bergamo, noto critico ante litteram, da posizioni vetero-marxiste, del comportamento dei partiti di sinistra di fronte alla crisi del capitalismo.
Non si dispone ancora del testo della relazione di Bellofiore, ma è plausibile attendersi che in essa sia contenuto il “nocciolo” delle tesi che egli ha avuto modo di esporre in un’intervista concessa a Danilo Di Matteo, pubblicata sul Blog “Mondoperaio” il 3 ottobre scorso, col titolo “Miseria del keynesismo”. In essa Bellofiore ha ribadito le sue critiche nei confronti della politica di sinistra che, oltre a mancare di immaginazione politica e sociale nel proporre soluzioni ai problemi del capitalismo attuale, risulta incapace di “analizzare i movimenti del capitale, con una rinuncia talora programmatica al conflitto sociale, con una perdita della dimensione centrale del lavoro e del suo sfruttamento”. Questa incapacità, secondo Bellofiore, è il suggello di una sconfitta subita dal mondo del lavoro e dai movimenti di contestazione nel corso degli anni Sessanta e Settanta; “sconfitta che non viene dal nulla, ma da una lunga costruzione di quel modello che è stato chiamato ‘neoliberismo’, e dalla crisi del modello fordista-keynesiano”. Per opporsi a questa sconfitta, è giunto il tempo, afferma Bellofiore, di riprendere la critica, oltre che del neoliberismo, anche del keynesismo. Ciò è tanto più necessario, se si considera che il neoliberismo non è solo un modo di concepire il funzionamento del sistema economico, ma è anche un progetto di costruzione politica di un diverso Stato, posto a presidio del capitalismo, del quale il keynesismo è divenuto una sorta di propulsore-regolatore.
Il neoliberismo, così come esso è interpretato modernamente, ha la sua data di nascita con l’avvento di ciò che Bellofiore chiama “keynesismo privatizzato”, affermatosi con il consolidarsi di una finanza perversa finalizzata ad assicurare dinamicità al modello capitalistico attraverso la realizzazione di un rapporto specifico tra “finanza e produzione”. Sulla base di questo particolare rapporto, è stato possibile sostenere e legittimare che l’ineguaglianza distributiva “fosse un bene per la crescita”, mentre in realtà è servita solo a gestire il sistema attraverso la logica delle bolle speculative. “Insomma – afferma Bellofiore – il neoliberismo è un modello politico nutrito da una ridefinizione (non da una cancellazione) del ruolo dello Stato e della politica economica, e per combatterlo bisogna conoscerlo per come è davvero”.
Il keynesismo privatizzato, basato su una continua inflazione e su operazioni speculative condotte nei mercati finanziari e immobiliari, all’origine di una “sussunzione reale del lavoro al capitale” e di una “centralizzazione” del comando economico nei gestori delle risorse finanziarie, è ormai entrato in crisi. Per uscire dalla logica perversa propria del capitalismo finanziario, occorre rovesciarla; a tal fine, “non basta un po’ meno di austerità, di spesa pubblica purchessia, di finanziamento bancario. Occorre, più specificamente, una ‘socializzazione dell’investimento’[…], una ‘socializzazione dell’occupazione[…], una ‘socializzazione della banca e della finanza’”, socializzazioni rese possibili dall’erogazione di una spesa pubblica ricondotta a “motore della crescita, ma in forma del tutto inedita, secondo modalità molto diverse da quelle del keynesismo”, al fine di compiere “un passo decisivo verso una forma di socialismo”.
Una politica economica siffatta consentirebbe di “creare lavoro, un lavoro dignitoso e di qualità, mirando con determinazione alla piena occupazione con lavoro fisso e un salario ‘decente’[…]. Invece tutta la sinistra, moderata e non, assume come un dato di natura la fine del contratto di lavoro a tempo indeterminato, o il precariato”, mentre alcuni, tra quelli impegnati a sinistra, giungono persino a vedere nell’introduzione del reddito di cittadinanza l’”uscita dalla gabbia del lavoro: follie”. Per Bellofiore, si tratta di un obiettivo che, per essere realizzato con successo, richiederebbe “un sistema fiscale altamente progressivo e senza evasione o elusione. Fantascienza”. In alternativa, occorrerebbe invece pensare a una forma di organizzazione sociale che andasse al di là del capitalismo, da realizzare “attraverso un soggetto sociale alternativo, plurale, con lotte dal basso, in un periodo, che si prospetta lungo, di incertezza e sprofondamento nella crisi”. Il limite, conclude Bellofiore, al successo di questo disegno è costituito dal fatto che non si dispone di una “mappa della transizione e del conflitto”; ma per rimediare a tale deficit basterebbe “opporre al senso della realtà il senso della possibilità[…]. Purtroppo la discussione, soprattutto, in Italia, è lontana da questi temi”.
Il modo di ragionare di Bellofiore è quanto meno singolare; egli considera follia e fantascienza l’introduzione del reddito di cittadinanza e, anziché considerarne le implicazioni sul piano del ricupero della centralità del lavoro, lo degrada a “contrabbando” di sussidi in favore dei precari e delle fasce più emarginate di forza lavoro, utile solo ad elargire vantaggi alle imprese sotto forma di ribassi dei salari. Così, Bellofiore, oltre che contribuire a ridurre la discussione sull’introduzione in Italia del reddito di cittadinanza ad una sorta di “tabù” del quale, non disinteressatamente, è vietato parlare, manca di valutare realisticamente come, con questa forma di reddito universale, diverrebbe possibile riformare il welfare State, per sconfiggere quello che egli chiama “keynesismo privatizzato”. Il reddito di cittadinanza, correttamente inteso, varrebbe tra l’altro anche a flessibilizzare il mercato del lavoro, anziché irrigidirlo col perseguimento dell’obiettivo di una forzosa piena occupazione, con effetti non solo di natura economica, ma anche di natura sociale, per le maggiori opportunità di accesso al reddito che sarebbero offerte a tutta quanta la forza lavoro.
Bellofiore, invece, da marxista duro e puro, ripropone la via ad una trasformazione socialista del capitalismo attuale attraverso una politica economica non affatto dissimile da quella fallimentare del “socialismo reale”, già sperimentata e riposta tra i “rifiuti della storia”; egli infatti non è minimamente sfiorato dal dubbio che sia la sua proposta di politica economica ad essere folle e fantascientifica. Poiché, come egli riconosce, non si dispone in astratto di alcuna “mappa della transizione” verso una società altra dal capitalismo, ispirata ai valori del socialismo, il senso della possibilità che egli invoca per il rinnovamento sociale, contro il senso della realtà attuale del capitalismo, non dovrebbe presentare il limite d’essere il portato di un’ideologia assoluta; ma bensì il vantaggio che quel senso di responsabilità sia percepito come esito di un riformismo politico, economico e sociale costantemente ricondotto sotto il mandato della ragione. Quest’ultima esclude nel modo più assoluto che un qualsivoglia processo di trasformazione sociale possa svolgersi in presenza di uno sprofondamento nella crisi del sistema che si vuole trasformare.