Le nostre lettrici che avessero tentato di entrare in una chiesa cattolica indossando una minigonna potrebbero denunciare a gran voce l’intolleranza clericale. E se fossero lettrici anziane potrebbero recriminare anche per essersi dovute, nella circostanza, coprire il capo con un velo. Se poi avessero avuto la ventura di frequentare l’Università cattolica del Sacro Cuore prima del 1968, ricorderebbero che per loro era obbligatorio coprirsi con un grembiule nero: che fra l’altro consentiva di scorgere l’eventuale uso di pantaloni, indumento a sua volta proibito (finché una statuaria studentessa del Politecnico non si presentò in largo Gemelli col grembiule d’ordinanza, sotto il quale non c’era nient’altro: ma questa è un’altra storia).
Tira una brutta aria, dalle Alpi al Lilibeo. Ne sa qualcosa il sindaco di Riace, assurto all’onore delle cronache mondiali per avere realizzato una best practice (come si dice adesso) in tema di integrazione di migranti, e contestualmente coperto di insulti lungo la penisola per avere disertato la guerra di civiltà.
L’integrazione, del resto, non è nelle corde degli italiani. Non la realizzano neanche in famiglia, a giudicare da episodi agghiaccianti come quello di cui è stato vittima il giovane Varani ad opera di due rampolli della buona borghesia romana, o dalla missione purificatrice cui si dedicavano altri due rampolli dell’alta borghesia milanese sfregiando con l’acido incolpevoli protagonisti di remoti amori adolescenziali.
La civiltà, insomma, non è un patrimonio perennemente disponibile. Solo ottant’anni fa – nel paese di Kant, di Hegel e di Marx – non mancavano i giovani che si arruolavano volontariamente nelle SS. Ed in tempi meno remoti non sono mancati – nel paese di san Francesco – quanti scioglievano bambini nell’acido.