Il Fondo monetario internazionale non è un organo sovversivo che mira a destabilizzare le vigorose istituzioni dei paesi democratici. L’organizzazione non trae alcun vantaggio dall’instabilità finanziaria dei suoi membri, né beneficia delle storiche debolezze strutturali di talune realtà. Si limita, semmai, ad evidenziare le criticità di ciascuno specifico modello, essendo preposta – fra l’altro – all’adempimento di questa funzione. La sede del Fondo, pertanto, non può essere confusa con il covo segreto dei brigatisti rossi, né tantomeno afferiscono al suo interno le peggiori “oligarchie plutocratiche”, quelle stesse oligarchie che secondo qualcuno, in epoca passata, ebbero il torto di boicottare la nostra “ardimentosa forza coloniale”.
Detto ciò, quanti hanno assistito nella giornata di ieri alle intemerate del Pdl contro Kenneth Kang, assistant director del dipartimento europeo del Fmi, avranno vissuto con ogni probabilità degli istanti di perplessità e confusione. Kang si è macchiato di un grave reato agli occhi della nostra pubblica opinione: in un paese che perdona concussori, evasori, prescritti per mafia, corruttori e adescatori, in un paese in cui si accetta tacitamente l’idea di una trattativa fra Stato e Cosa nostra, se c’è una cosa che risulta invisa alla società civile è la spavalderia di chi, conti alla mano, crede o sa di essere nel giusto. Possiamo perdonare tutto, noi italiani, perfino l’essere incensurato, ma non la chiarezza d’intenti. Non ci interessa il balletto degli stolti e dei virtuosi, Roma ripudia i professori a prescindere dal merito e dalla competenza, tanto più se essi danno adito a dubbi amletici che trovano legittima cittadinanza nella nostra buona coscienza. Dubbi sulla nostra reale solidità finanziaria, dubbi sulla sostenibilità dell’attuale stile di vita.
Ora, vista e considerata la bassa occupazione, la rigidità del mercato del lavoro permanente, la debolezza nelle previsioni di crescita, il numero esorbitante di imprese chiuse nel solo 2013, Kang ha suggerito di evitare demagogia e populismo. Nel rispetto del principio di equità, constatato che una tassa sugli immobili – ivi considerata quella sulla famigerata prima casa – vige in realtà in tutto il vecchio continente, egli ha proposto di non eliminare completamente l’Imu, ma di rivedere il «sistema catastale, per andare nella direzione di un modello più equo e giusto». Politica dei piccoli passi, insomma. Politica di sinistra. Apriti cielo, è scoppiato un finimondo. Gasparri, in perenne crociata come un condomino riottoso, da quando ha scoperto lo smartphone vive su twitter senza fissa dimora e non ha esitato a lanciare il proprio anatema: «Su Imu prima casa intollerabile interferenza del Fmi. Si facciano gli affari loro». Straordinaria prova di lucidità: nemmeno Cetto La Qualunque avrebbe reso così chiaro il concetto. Più sottile la Santanché, che evidentemente è tagliata per un ruolo di garanzia pregustando la vicepresidenza della Camera: «L’indicazione dell’Fmi di lasciare l’Imu è un attentato della nostra sovranità nazionale. Se il ministro Saccomanni dovesse, come pare, dare seguito alle indicazioni dell’Fmi si prepari a cercare un’altra maggioranza per il suo governo per dar seguito a questa sciagurata decisione». Poi c’è l’ex sindaco di Roma, quello con la voce melodica e raffinata, che ha avuto il merito indiscusso di intuire per primo quale inedita alleanza stiano tessendo sottobanco i cosiddetti poteri forti: Alemanno ha finito così per denunciare «un’interferenza inaccettabile che sembra tanto un assist alle posizioni del Pd su questo tema». Potremmo andare avanti per un po’, scorrendo le dichiarazioni di Brunetta o Capezzone, ma per ragioni di sintesi ci fermiamo qui.
Prendiamo atto che in un paese serio, preparato al dibattito, le obiezioni di Kang sarebbero state vagliate attentamente, magari sulla base dei parametri economici di cui disponiamo per il primo semestre di quest’anno. Poiché, con ogni evidenza, il prerequisito della serietà manca alla nostra classe dirigente (salvo rare eccezioni), si è preferito dare manforte ad una grossolana strumentalizzazione propagandistica. Il Pdl ha dato un segnale chiaro: usa il governo Letta secondo la tradizionale vocazione berlusconiana, laddove il potere esecutivo serve non già a risolvere i problemi delle generazioni successive, bensì a fabbricare sogni e consenso, senza curarsi minimamente del conto salato che verrà presentato agli italiani di domani.
La tragedia però si consuma allorquando Letta rivendica la propria strategia d’azione, ponendo l’accento sulla collegialità della scelta presa. Finché la destra si dimostra irresponsabile e sorda ai richiami delle istituzioni economiche internazionali, pazienza: ci abbiamo fatto il callo nel corso di questi anni. Rammentiamo sempre con orrore l’immagine eurofobica di un Berlusconi contrario alla moneta unica, un Berlusconi che rivendicava in piazza una mistica equiparazione del cambio fra euro e vecchio conio (1 euro = 1000 lire, con buona pace del marco tedesco). Ma quando gli eredi di Prodi, che pure un folle non lo è mai stato, manifestano una certa noncuranza nei confronti dei richiami alla responsabilità sui conti, bene allora le nubi prevalgono e torna in mente Longanesi: “E’ meglio assumere un sottosegretario che una responsabilità”.