Con grande dolore (e qualche nascosto presentimento) ho avuto poco fa la notizia della morte di Luigi Mattucci, per tutti Gigi, che nel corso della mia vita ho considerato un fratello maggiore.  Quaranta anni di condivisioni, per anni quotidiane. Poi nei diversi percorsi con raccordi vitali, creativi, sempre nutriti con la stessa passione e pressione: insofferenza per la malgestione, progetti e proposte per migliorare le cose.

La Rai è sempre stata al centro dei suoi pensieri. Io ho scelto di averne anche altri, ma quelli provenienti dalla “casa madre” (per Gigi l’intera vita, per me la mia formazione da dirigente) non solo li ho mai dismessi ma nel nostro dialogo abbiamo rigenerato sempre il nostro copione: fare il punto a fondo, trovare la proposta più innovativa, cercare il luogo e il modo per esprimerla. Che avessimo o non avessimo poteri per esercitare qualche influenza, non abbiamo mai rinunciato a provarci.

Siamo in tanti a ricordarlo come un’intelligenza senza fronzoli, uno spirito anticonformista (nei limiti di quell’educazione piemontese che gli faceva chinare comunque un poco il capo con tutti quando salutava), con un pensiero laterale degno di un ingegnere assunto in Rai perché – come mi disse che gli aveva detto Bruno Vasari assumendolo a Torino  – era “un ingegnere che aveva letto Proust”.

Pensando a ciò che ha significato per molti anni la parola “classe dirigente”, riferita ad una scuola che ne ha prodotta una componente di qualità, parlo dei socialisti italiani, lui è stato al tempo stesso esemplare e singolare.

Nel 2014 firmammo insieme su Mondoperaio una nota (come altre) dedicata ad un convegno promosso dalla Fondazione Paolo Grassi sui rapporti tra la Rai e Milano (città in cui, dopo la sua esperienza da “fondatore” in Rai2 accanto a Massimo Fichera, fu un reputatissimo direttore di sede). Cito un brano che di mio ha solo la penna, di suo il nodo centrale sui contenuti culturali.

“A cosa ci serve l’ispirazione di coloro che – come Paolo Grassi – consideriamo pionieri del cambiamento e del negoziato per restituire alla società contenuti che non debbono diventare elitari? Non per vedere quali battaglie hanno vinto o perso, in una evoluzione in cui tanti comunque hanno portato contributi creativi e solo alcuni hanno cercato di mantenere nel nostro Paese i caratteri di un primato che il mondo ci ha per secoli riconosciuto e molti hanno fatto di tutto per marginalizzare. Ma per vedere se si mantiene vitale la relazione tra i canali oggi disponibili (che ci fanno parlare di una tv infinita) e i centri di studio, elaborazione, sperimentazione e produzione che restano capaci di performance sui contenuti ed eternamente disponibili ad essere intercettati da un Paolo Grassi – per chi lo ricorda, ai finestrini di un treno che saluta i milanesi fiero di portare il suo Arlecchino a Mosca – perché se li porti a Mosca, in Cina o a Quarto Oggiaro”.