C’è cascato di nuovo. Maurizio Gasparri ogni volta ce la mette tutta, con ammirevole dedizione: tenta di fermare la sua vena oratoria, fugge dai giornalisti per non ergersi a portavoce di chicchessia, prova a stemperare i toni, a contare fino a cento prima di lasciarsi andare alle solite esternazioni fuori luogo. Poi fortunatamente sbotta.
Fortunatamente, sì. Perché il deputato del Pdl, già colonnello di Alleanza Nazionale, vanta sicuramente un merito di fronte alla platea dei media: con la sua triviale sincerità riesce talvolta a semplificare il quadro politico. Certo, all’uomo manca la diplomazia kissingeriana, non ha il tatto di Moro né la lungimiranza di Metternich: però dipinge in maniera più o meno chiara la realtà del Transatlantico, volando dove altri non osano, colpiti ora da paura, ora da mero senso del ridicolo. Anche stavolta la sua voglia di rompere gli schemi è servita a qualcosa. Se Berlusconi dovesse essere condannato, ha detto il nostro eroe, l’intero gruppo parlamentare del Popolo delle Libertà sarà pronto a rassegnare compattamente le proprie dimissioni. Il che, tradotto, sottintende una crisi di governo destinata a destabilizzare il paese, costringendo il povero Napolitano a sciogliere le Camere, guadagnando nuova popolarità (sic).
Parole di fuoco, ma parole al vento. Se il Cavaliere dovesse davvero andare incontro ad una sentenza di condanna, dietro l’angolo si manifesterebbe quella temuta e paventata interdizione dai pubblici uffici che lo esporrebbe a pericoli di gran lunga maggiori. L’uomo, che stupido non è e che nella sua vita di esperienza ne ha maturata parecchia, capito l’andazzo del processo rilancia la posta in gioco, alzando il tiro e spolverando le vecchie lezioni calcistiche di Sacchi: quando sei chiuso in un angolo da una squadra con una spiccata propensione offensiva, tramite il palleggio devi bilanciare le forze, rammentando come la migliore difesa sia, in fin dei conti, l’attacco.
Da qui le innumerevoli sortite. Riunioni fiume a Palazzo Grazioli, da cui trapela l’ira verso quel “bolscevico” di Napolitano. Mediaset fa il suo: pronta a trasmettere nuovamente il documentario Vent’anni di guerra, quello che, per intendersi, elogia la misera Ruby Rubacuori, passata da meretrice di Babilonia a Santa Maria Goretti nell’arco di poche ore, vittima immolata ad un sistema giudiziario che fa della persecuzione la sua unica ragion d’essere. Sallusti e i suoi fedeli, infine, non sono da meno, e capiamo sempre più le ragioni di un amareggiato Montanelli, quando – esiliato al Corriere – si vedeva costretto a omettere dalla rassegna stampa la visione, anche fugace, del Giornale di famiglia. Non ne andava fiero, il povero Indro, ma preferiva comportarsi come il padre di un tossico ormai stanco di soffrire all’idea di un figlio distrutto dalla sua dipendenza.
Dietro le minacce, dietro i toni sempre più gravi, c’è una banale verità: il Pdl non ha più niente da perdere e può tranquillamente rivendicare la libertà, fosse anche condizionata, del suo padrone come unica discriminante per la partecipazione all’Esecutivo. Se Berlusconi fosse condannato, le dimissioni di ogni deputato e di ogni senatore rappresenterebbero l’eclissi della Repubblica, ma è un rischio fittizio. In politica si può trattare soltanto da posizioni di forza, e andare alle urne senza poter mettere in campo il Cavaliere appare una forma assai lodevole di inno al suicidio assistito. Nemmeno i radicali oserebbero tanto. A quel punto, d’altra parte, ci chiediamo: chi dovrebbe raccogliere il consenso degli elettori? Angelino Alfano? Mara Carfagna? Fabrizio Cicchitto? O, meglio ancora, Roberto Formigoni, il campione lombardo che cosparge con l’incenso ogni giacca hawaiana?