Trovo di estrema importanza la questione di recente posta all’attenzione della redazione di Mondoperaio dal direttore Luigi Covatta: il divario fra ispirazione socialdemocratica tradizionale (oggi incarnata bene o male soprattutto da Pier Luigi Bersani e dai “giovani turchi” del Pd) e tendenze più liberali, quali quelle interpretate in versione “giovanilistica” da Matteo Renzi.
E subito si ripresenta l’inesauribile problema del rapporto fra i nomi e le cose. A parole, infatti, almeno dall’inizio del terzo millennio i principi liberalsocialisti, pur tenendo conto dei mutamenti profondi emersi nei decenni che ci dividono dalle loro prime formulazioni, rappresentano la principale bussola della sinistra di governo. E anzi paiono ormai lontane anni luce le critiche rivolte ai liberalsocialisti di rischiare di rincorrere un improbabile ircocervo e quelle mosse ai socialisti liberali, ad esempio da parte di un riformista del calibro di Claudio Treves, di non essere né socialisti né liberali. Certo, non mancava chi, dietro la riproposizione forte della figura di Carlo Rosselli, scorgeva una sorta di fuga in avanti: celebrare i Rosselli pur di non fare i conti con Turati.
Ma i problemi di fondo sono (stati) altri. Iniziamo dalle parole: in Italia il termine socialista, con o senza prefissi e suffissi, sembra assai poco spendibile nella vita pubblica. Il sostantivo e l’aggettivo riformista sono quanto meno assai usurati. E gli “ismi” in generale, liberalismo compreso, sono percepiti come vaghi o ingannevoli, e di certo polisemici e perciò forieri di confusione (giorni fa, ad esempio, anche Nichi Vendola evocava un “riformismo liberale”).
Riguardo ai fatti, poi, non c’è dubbio che oggettivamente vi siano sensibilità e istanze più legate al mondo dei lavori e altre più attente ad altri aspetti e ad altre sfere dell’esistenza dei singoli e dei gruppi. Però, ecco l’uovo di colombo, la sinistra “ragionevole” nel secolo scorso ha contribuito in maniera decisiva alla crescita della democrazia proprio grazie alla tensione critica (alla dialettica, avrei scritto in altri tempi) fra quei due poli; i quali andrebbero vissuti in realtà come complementari e tutt’altro che antitetici.
E proprio da tale tensione dovremmo ricominciare, traendone lo slancio necessario per pensare al futuro, per costruirlo e per riprovare a creare orizzonti e prospettive.