Mesi fa, trovandomi a Venezia, vidi passare davanti al Palazzo Ducale un grattacielo galleggiante  che sottraeva allo sguardo l’Isola di San Giorgio e la Chiesa della Salute. Mi vergognai profondamente di essere italiano e mi chiesi a quali mani fosse affidata la tutela del più importante patrimonio d’arte del pianeta. Ancora sotto choc, mi capitò di leggere, ai primi di novembre, l’articolo di un Dottor Stranamore del liberismo (da non confondere con il liberalismo economico, architrave della società aperta) che accusava Roma e il premier Letta di voler allontanare traghetti e navi da  Venezia, di non nutrire alcuna “fiducia nel lavoro e nell’impresa”, e anzi di “intralciare in tutti i modi ogni forma di attività imprenditoriale”. Il decreto governativo inteso a ridurre fino al 20% il numero delle navi da crociera di stazza superiore alle 40.000 tonnellate abilitate a transitare per il Canale della Giudecca era, per l’articolista, il segno inequivocabile di “una cultura che tende a bloccare, regolare e intralciare tutto”.
Se questo è liberalismo, si comprende bene come abbia attecchito poco in Italia. Ma è poi davvero questo il liberalismo che avevano in mente  i profeti della “società aperta”? Una cultura non prevenuta nei confronti degli individui reali e dei loro desideri e bisogni  dovrebbe  inalberare il principio per cui se qualcuno desidera un bene ed è disposto a pagare bisogna dare a qualcun altro la libertà di procurarglielo? Ad esempio, se c’è gente  disposta, per inconfessato  sadismo, a spendere cifre astronomiche per assistere a uno spettacolo di gladiatori (pronti a sgozzarsi non per finta) si dovrebbe tutelare la libertà “imprenditoriale” di quanti sono in grado di organizzare scuole per reziari e mirmilloni?
L’ambigua sentenza del Tar del Veneto che sospende il decreto Clini-Passera, con motivazioni ineccepibili su un piano formale, sembra oggi venire incontro alle esigenze dei fondamentalisti del mercato, riconoscendo che ci sono “diritti tutti egualmente da tutelare”: i diritti di quanti non vogliono vedere sfregiata la piazza d’acqua più bella del mondo e quelli dei commercianti e degli operatori turistici che subirebbero un grosso danno se dai grattacieli Pirelli travestiti da navi da crociera non si potesse ammirare la Chiesa di San Marco e le Procuratie. Da noi Tartufo ha il dono dell’eterna giovinezza.
Uno che di liberalismo se ne intendeva, Luigi Einaudi, ammoniva che, “come la democrazia può essere salvata dal precipizio collettivistico solo coll’erigere attorno ad essa baluardi che la limitino”, così l’economia di mercato può arrecare benefici al genere umano solo se rinuncia “alla sua esclusiva dominazione”. Il mercato economico e lo scambio politico sono fiumi che procurano benessere e libertà se a contenerli, a regolarli, a controllare la loro esuberanza vitale sono solide istituzioni statali chiuse alla logica del profitto come a quella dell’onnipotenza legislativa: i limiti del potere valgono sia per la sfera pubblica, sia per quella privata, sia per i governanti, sia per i privati,  produttori e consumatori.
Recentemente un gigante del mare ha urtato la banchina della Stazione marittima, provocando per fortuna pochi danni. Com’era prevedibile, la sinistra, e soprattutto la sinistra ecologista, ha protestato mettendo sotto accusa il consumismo turistico, la logica del mercato, gli interessi delle agenzie di viaggio e dei bottegai veneziani. Non si è sentita, però, alcuna voce “liberale” di protesta, come se tutto ciò che limita la libertà d’azione degli interessi privati in nome di quello pubblico appartenesse a un bagaglio ideologico che non riguarda minimamente gli eredi (presunti) di Benjamin Constant e di Raymond Aron.
Il fatto è che da tempo, nell’area che diffida dello statalismo in tutte le sue forme, si va radicando un pregiudizio antistatalista che – per riprendere l’abusata metafora – rischia di gettare, assieme all’acqua sporca del bagno (l’estensione e l’arbitrio della burocrazia), anche il bambino (il mercato e le sue regole). A questi liberali immaginari va spiegato che i “fenomeni degenerativi della politica” non stanno sic et simpliciter nel sistema che dà troppo potere allo Stato, ma nel sistema che dà troppo potere alla politica che mette le mani sullo Stato. C’è un abisso tra il collettivismo sovietico e l’Iri di Alberto Beneduce, che i miei amici economisti liberali, memori dell’apprezzamento di Luigi Einaudi, ammirano non poco (per loro furono Prodi e il centro-sinistra a rovinare sia l’Iri che le finanze pubbliche…). E  l’abisso sta nel fatto che l’economia stalinista era vampirizzata dalla politica (dal Pcus), mentre l’Iri (per esplicita volontà del duce) era sottratta ai fumosi progetti totalitari (mai realizzati e neppur tentati) intesi a sottoporre il settore privato al controllo totale di quello pubblico (progetti che sarebbero culminati nella proposta, avanzata da Ugo Spirito, della “corporazione proprietaria”.
Un discorso analogo vale per la Cassa per il Mezzogiorno, che – come dimostra un prestigioso meridionalista di cultura liberale come Guido Pescosolido, l’erede di Rosario Romeo – svolse nell’Italia dell’immediato secondo dopoguerra un lavoro superbo di promozione sociale ed economica delle plebi meridionali.
Il liberale che ho in mente io (forse troppo condizionato dai classici dell’800) vuole uno Stato forte, ma magro e atletico, capace di far valere l’interesse collettivo contro i gruppi di pressione di ogni tipo (dai sindacati ai veneziani imprenditori del settore turistico, amici di Mingardi, di Lottieri, di Stagnaro). Oggi abbiamo, invece, uno Stato obeso (e appesantito oltre ogni misura tollerabile dagli apparati sorti a sostegno dei “diritti sociali”), incapace di far valere l’interesse pubblico, e complice de facto (e soprattutto per debolezza: più si è grassi meno si è in grado di muoversi e di controllare) dei più loschi corporativismi.
Non “meno Stato, più mercato”, ma “meno politica, più mercato”. Senza lo Stato il mercato va a ramengo, perde il quadro istituzionale di riferimento che ne fa un meccanismo al servizio del consumatore. Ci sono liberali anticollettivisti che si battono perché si indichi sui cibi il numero degli ingredienti e la loro provenienza. Non mi meraviglierei se gli Stranamore su ricordati avvertissero questo obbligo come una limitazione della libertà d’impresa. Del nesso inscindibile tra istituzioni e mercato si  era accorto assai bene, nel tardo Settecento, Edmund Burke, ma la forza e la maestà dello Stato, non dimentichiamolo, costituì la stella polare  degli uomini della Destra Storica, da Quintino Sella a Silvio Spaventa: di quegli uomini di cui si legge in Uomo e cittadino (Gumlingen 1945), che “con tutti i loro difetti, meritano di restare nel ricordo del parlamento italiano come un sinedrio di patriarchi, un po’ quello che gli uomini di Solone restarono per gli Ateniesi del IV secolo o per Dante i cittadini di Fiorenza antica” (parole, forse, dettate da Luigi Einaudi, in esilio in Isvizzera).
Forse è il caso di rileggersi, a questo proposito, i libri di uno degli storici più geniali del secondo Novecento, il sardo-pisano Giuseppe Are, i cui scritti impressionarono tanto Rosario Romeo per la loro implacabile critica del dogmatismo liberista, in nome di un liberalismo più storicista, più realista, più “crociano” (senza offesa per nessuno).