Uno dei motivi per cui una politica statalista è moralmente ingiusta, oltre che economicamente inefficace, dipende dal fatto che essa instilla nei beneficiari una mentalità infingarda, pigra, attendista: spegne in loro la volontà di intraprendere e far da soli. Non solo la conservazione dello status quo nei momenti in cui le cose sembrano andare bene, ma persino il rinnovamento è chiesto alla politica: deve venire dall’alto. Non si tratta nemmeno sempre di cattiva volontà. Spesso è come un automatismo mentale, una disabitudine contratta. Questo è particolarmente evidente, anche a livello empirico, nelle contrade meridionali. Ove ai danni del dopoguerra, dei cosiddetti “interventi straordinari” per il Sud, ovviamente quasi sempre “a pioggia” e quasi sempre clientelari, si aggiungono forse quelli di una lunga storia che ha abituato le menti a diffidare della propria iniziativa privata, a chiedere la benevolenza di un Padrone o di un Sovrano.
Dal Re Borbone allo Stato ladrone il passaggio è stato meno radicale di quanto si sia portati a pensare. È questo il punto che il meridionalismo non ha centrato, segnando di fatto il suo scacco e con esso l’odierna svalutazione della stessa “questione meridionale”: non dobbiamo chiederci cosa lo Stato debba fare per noi, ma cosa noi possiamo fare per noi stessi. Nelle teste di noi meridionali ci vorrebbe questa “rivoluzione copernicana”, un Kant che ci dicesse di avere coraggio e di sapere osare: “Abbi il coraggio di servirti della tua volontà e affrancati dalle dande che ti tengono imbrigliato come un bambino, anche se tu non te ne accorgi”.
Ecco: lo Stato bambinaio è ciò di cui proprio non abbiamo bisogno. Perché se è vero che bisogna combattere l’ossessione a dettare per legge la nostra felicità (come ho più volte scritto), è pur vero che il legislatore perfezionista trova molto spesso dall’altra parte un popolo che gli chiede protezione e che supinamente accetta o addirittura attende le sue prescrizioni.
Vi racconto due episodi freschi freschi a me capitati, per spiegare con degli esempi concreti ciò che voglio dire. Mi sono capitati entrambi in uno sperduto ufficio postale della cittadina sannita ove sono nato e ove mi capita di ritornare ogni anno per le festività di Natale. Sono in fila allo sportello, rassegnato come gli altri ad una lunga attesa del mio turno: è l’unico operante e siamo in tanti. Gli altri sembrano tutti conoscersi, tanto che approfittano dell’attesa per intavolare fra loro conversazioni. Non posso evitare di ascoltarle.
Quelli immediatamente davanti a me discutono della crisi, economica e psicologica insieme: del Natale sotto tono, del lavoro che manca. E se la prendono con tutti i politici, di destra, di centro, di manca. Riconducono alla politica la causa di ogni loro male, chiedendole di intervenire per questo e quell’altro loro problema locale. Presumibilmente stanziando soldi. A nessuno che venga in mente di chiedere alla politica l’unica cosa sensata: di fare un passo indietro, liberare energie compresse, e aprire il campo a possibilità che pur nella zona ci sarebbero, e non solo nel settore turistico.
Mentre faccio queste riflessioni, l’orecchio cade sul discorso di chi è dietro di me. Il tono è del tutto diverso. Qui c’è una donna matura allegra che trasmette agli altri la sua gioia. Dice di aver trovato finalmente lavoro, dopo tanti anni, in un paese vicino. E si meraviglia: “Come, non avete saputo che hanno finalmente aperto?”. Usa l’acronimo, che non ricordo, di un ente statale per una non meglio precisata “assistenza sul territorio”. Probabilmente l’ennesimo ente inutile.
Ovviamente quelli che ho qui raccontato sono due episodi empirici, particolari. Probabilmente le cose sono più complicate di come io ho provato a immaginarle. Mi resta tuttavia una certezza, e non credo di sbagliarmi: la “questione meridionale” esiste ancora, anche se non è più à la page. E purtroppo esisterà ancora a lungo, o quasi per sempre. Almeno fino a quando i meridionali non capiranno che devono fare da soli, prima di tutto come individui. Parola di terrone.