Abbiamo dinanzi agli occhi i morti di Lampedusa. Come evitare tali tragedie? Come governare i flussi migratori? Siamo tutti consapevoli che la risposta non può non essere almeno europea. Proviamo per un istante a generalizzare il discorso, però. Quanti ancora sognano un’Europa federale? Probabilmente pochi. Eppure, riguardo ai giovani cresciuti viaggiando fra Berlino, Londra e Barcellona, si parla di eurogeneration. E molti ragazzi, oggi, si sentono apolidi, pur riscoprendo la dimensione “municipale”. E che dire della fiducia nelle regioni, dopo i casi di corruzione?
A lungo abbiamo dibattuto, in chiave un po’ bernsteiniana, sul socialismo come “movimento” e sul socialismo come fine e sistema. Oggi in primo piano, tuttavia, è forse la tensione fra le istanze di libertà e di giustizia sociale ancora interpretate dalla tradizione socialdemocratica e laburista e le risposte concrete. Come se vi fosse un abisso fra il versante della domanda e quello dell’offerta, soprattutto in relazione ai mille vincoli sovranazionali e alle possenti spinte globali. È come se soffrissimo nello stesso tempo di claustrofobia, insofferenti ormai rispetto a muri e barriere, e di agorafobia, fino a ritrarci in ambiti nazionali o locali pur sentiti come angusti e inadeguati. E intanto l’Internazionale socialista si frantuma.
Così ci troviamo a disquisire di diritti universali, di società aperta e multiculturale, delle grandi tendenze e dei sommovimenti del nostro tempo, senza però riuscire a calibrare le nostre proposte e i nostri interventi secondo le dimensioni e le scale di volta in volta appropriate. Da qui la sensazione di impotenza, da qui l’atteggiamento scettico dei più. Come se ogni volta agissimo sulla leva sbagliata.