I quotidiani hanno giustamente ironizzato sul recente bando del ministero dei Beni culturali per la selezione di 500 giovani laureati col massimo dei voti da assumere a 400 euro al mese per l’inventariazione digitale del patrimonio culturale. In proposito nel prossimo numero di “Aedon”, rivista di arte e diritto diretta da Marco Cammelli, verrà pubblicata la nota, a firma dello stesso Cammelli, che riportiamo di seguito.

Gli artt. 2 e 12 del D.L. 91/2013 convertito in legge 112/2013 (da ora, decreto cultura), trattano di oggetti assai diversi, vale a dire l’attività di inventariazione del patrimonio culturale (il primo) e la disciplina delle donazioni di modico valore da parte di privati in favore della cultura (il secondo). Ma al di là delle apparenze, e della distanza materiale tra le due disposizioni, entrambi gli articoli sono segnati innanzitutto da una preoccupazione: quella delle dinamiche distorsive che gli apporti dei privati possono innescare nella organizzazione e gestione pubblica del patrimonio culturale.
Cautela doverosa, intendiamoci, se non venisse collocata al primo posto separandola da problemi del presente altrettanto rilevanti e, appunto perché attuali, ancora più pressanti: le (finora) incorreggibili o comunque non corrette distorsioni interne all’area pubblica, radicate ben prima dei forti tagli delle risorse assegnate al settore; e anche in conseguenza di questo l’ormai conclamata carenza di mezzi per fare fronte anche ai compiti primari. Ove, come si può notare, è ben chiaro a molti che quest’ultima (la carenza di mezzi) non è la causa ma l’effetto finale di più fattori, il principale dei quali va riferito all’inadeguata organizzazione e funzionamento del Mibac.
Ma veniamo all’esame specifico. Con l’art.2 si tocca un oggetto, la catalogazione del patrimonio culturale italiano, ma si evita accuratamente il tema che vi è connesso, vale a dire lo stato in cui versa questa fondamentale operazione e le ragioni del perdurare di annose difficoltà che impediscono di venirne a capo compiutamente. Il che finisce per condizionare anche la bontà delle soluzioni escogitate.
Il problema, infatti, è che da un lato la vera e propria catalogazione dei beni culturali è stata fin dall’inizio impostata in tali termini di complessità da finire per essere abbandonata dalle stesse soprintendenze nella propria attività ordinaria (addirittura anche nelle procedure di “notifica” a beni immobili); e dall’altro che senza questa base conoscitiva non è possibile né tutela né valorizzazione, né attività ordinaria (a cominciare da quella di manutenzione programmata) né interventi in casi di calamità e di urgenza (come è successo in Emilia con il recente terremoto, dove in molti casi le soprintendenze non erano in grado di ricostruire non i dettagli
ma dove erano collocati i beni tutelati e crollati). In breve, senza questo elemento, né attività solo pubblica né forme di cooperazione pubblico-privato.
Da questo, dunque, la necessità di una rilevazione sia pure semplificata dei beni (cominciando da
tutti i beni immobili e tutti i beni mobili giacenti nei depositi degli istituti e luoghi di cultura), una inventariazione appunto, possibile con uno sforzo straordinario di risorse private (di entità tale da garantire il completamento in tempi definiti) e l’avvalimento di adeguate e disponibili tecnologie di rilevazione e rappresentazione da svolgere nel rispetto delle prescrizioni dettate in materia dalle sedi competenti e con la cooperazione delle soprintendenze, ma in autonomia operativa e con la garanzia di esperti di riconosciuta autorevolezza e affidabilità. Il tutto destinato al Mibac e all’intero sistema pubblico operante sul patrimonio culturale.
Si tratta di una ipotesi che effettivamente era stata avanzata in precedenza da un gruppo di lavoro Astrid
1, con l’obiettivo di dare in tempi brevi una prima soluzione ad un problema chiave per l’intero settore, e con l’intento di offrire al pubblico (e al Mibac in particolare) nello stesso tempo un aiuto e un motivo per riflettere su quanto in proposito, in termini di impostazione e di operatività, c’è da rivedere: non solo per l’enormità delle risorse impiegate nel tempo dal Ministero a questo fine senza risultati conclusivi (la Corte dei conti le ha stimate pari all’equivalente di un miliardo e 100 milioni di euro), ma per l’importanza della posta in gioco e la necessità di riflettere su quali strade e quali modalità praticare in futuro.
Toccare l’oggetto senza sfiorare il tema e la sua tematizzazione (perché, come, chi, che cosa?) ha portato invece alla soluzione adottata dall’art.2 del Decreto. Dagli ossimori della rubrica (o l’attività di inventariazione è bloccata, ma non lo si dice, e c’è bisogno di misure urgenti, oppure si tratta solo di continuare ciò che si sta facendo, come in effetti si dice, ma allora non si vede l’urgenza e neppure la necessità di una apposita misura), all’inserimento di ambiti diversi (come gli archivi e le biblioteche), certo legittimo ma non consigliabile in un intervento limitato nel tempo (un anno) e nelle risorse (2,5 milioni di euro). Insomma, un “programma straordinario” che si riduce in realtà a qualche risorsa straordinaria per una attività “ordinaria”, affidata (a questo punto, coerentemente) a chi da sempre della cosa si occupa con risultati non proprio entusiasmanti.
Quanto e come possano funzionare, in questo contesto, l’assunzione con selezione pubblica a tempo determinato di 500 giovani da impegnare (sub specie di “formazione”) nel progetto per 12 mesi, o la possibilità (giustamente) lasciata aperta per la realizzazione del “programma straordinario” al concorso di altri soggetti anche privati è presto da dire: anche se qualche dubbio può essere ragionevolmente sollevato su quanto le preoccupazioni di “fuoco amico” possano portare a sentieri impervi e soluzioni obbiettivamente deboli.
Lo stesso spirito anima l’art.12, ed è appunto questo che accomuna le due disposizioni, per il resto diversissime. A fronte del
deficit, serio e destinato in buona parte a perdurare, di risorse pubbliche che cosa spinga la pubblica amministrazione a dedicare tanta cura al “governo” dell’afflusso di risorse di cui non si vede né traccia né rischio, è cosa a cui è difficile rispondere. Il limite quantitativo (10.000 euro), la tracciabilità, la pubblicità e la rendicontazione delle donazioni e della loro utilizzazione sono cose sacrosante: ma che queste ipotesi (al pari delle sponsorizzazioni, peraltro assai limitate) vengano affrontate con tanta premura e pathos da una amministrazione che di questo tipo di tentazioni all’orizzonte ne vede assai poche (e quelle poche, già oggi, efficacemente scoraggiate), francamente sfugge. Se non appunto una rappresentazione della realtà segnata in pari tempo dalla inadeguata percezione delle disfunzioni pubbliche in atto e dall’enfasi per il rischio, largamente potenziale, del “fuoco amico”.
Certo, la tutela e la valorizzazione dei beni non possono diventare una sorta di
self-service tramite il quale ognuno si serve a suo gradimento del bene culturale preferito: ma questo non è un problema né di tracciabilità né di improbabili procedure concorsuali per chi si offre. E’ sufficiente disporre di un parametro, cioè di un programma di attività e di pochi ma chiari criteri generali di gestione, di una base, e di uffici ben organizzati e responsabili del merito di quello che fanno. E naturalmente di disporre delle conoscenze di base riguardanti gli elementi primari dei beni, partendo dal sapere quali e dove essi siano. Appunto.

1 Del quale, per chiarezza verso il lettore, faceva parte anche chi scrive. La scheda relativa in FONDAZIONE ASTRID, Proposte di politiche pubbliche per il governo del Paese, Passigli, 2013.