Al momento non è dato sapere quale governo avrà la fiducia del Parlamento, ma si può dire che una fase della nostra vita pubblica si è conclusa: quella che, dal 2006, ha visto franare prima le coalizioni che si sono contese il governo del paese negli ultimi venti anni, e poi andare decisamente in crisi i partiti – Pdl e Pd – che le avevano raccolte e guidate. Oggi che la parentesi dei governi “dei tecnici” e “delle larghe intese” viene dichiarata chiusa dal Pd, togliendo la fiducia a Enrico Letta, è possibile tirare rapidamente alcune somme.
La matrice della parentesi, in tutti e due i casi, è nota, ma va ricordata. Nel novembre 2011 l’allora premier Silvio Berlusconi si è addirittura dimesso per far strada al governo “tecnico”, dopo che la maggioranza conquistata nel 2008 si era sgretolata e aveva sperimentato difficoltà altrimenti insormontabili nel far fronte alle conseguenze della crisi finanziaria internazionale del 2008 (v. le interviste di Franco Frattini e Fabrizio Cicchitto sul Corriere della Sera e La Stampa, del 12 febbraio, a proposito delle “rivelazioni” di Alan Friedman sul ruolo del Presidente della Repubblica). Nel maggio 2013, fallita da tutti (coalizioni e partiti) la conquista di una valida maggioranza parlamentare nelle elezioni di febbraio, era stato ancora il leader del centrodestra a promuovere una tregua e un’intesa di governo fra “responsabili” con gli stessi obiettivi della prima, ma guidata stavolta dal leader del Pd (Bersani e, rinunciando questi, Letta).
Entrambi i governi sono quindi nati e sono stati sostenuti in Parlamento dal Pdl e dal Pd, in accordo in tutta questa fase con i centristi dell’Udc e poi di Scelta Civica: entrambe compagini intese a “portare l’Italia fuori dalla crisi”. Ma, da entrambi i governi, i maggiori partiti hanno poi preso le distanze: da quello “dei tecnici” immediatamente, stabilendo il perimetro e presidiando le aree e i temi riservati alla “politica sovrana”, e accentuando così il carattere “di servizio” dell’azione da essi richiesta e sostenuta; da quello “delle larghe intese” misurando ciascuno il sostegno all’azione di governo sul metro delle rispettive proposte e promesse elettorali, e marcando sempre più, anche quando accolte, le differenze presso l’opinione pubblica. Fra l’una e l’altra di queste maggioranze ed esperienze di governo “anomale” le urne delle elezioni politiche, da cui i partiti-leader delle maggiori coalizioni, sempre in aspra competizione fra loro, sono usciti falcidiati dalla perdita di voti (- 6,5 milioni il Pdl, – 3,5 milioni il Pd), squassati nei loro tradizionali insediamenti sociali, e consapevoli, da allora, della sfiducia crescente dei più diversi ceti e interessi, che tuttora tentano di trattenere e inseguire con affannose campagne mediatiche.
Oggi si può dire che negli ultimi 28 mesi la doppiezza ha caratterizzato il comportamento di questi partiti, e che “decisioni” o “iniziative” sempre presentate sui media come scelte o svolte “politiche” siano state piuttosto dettate dalle opportunità da cogliere. La doppiezza non ha impedito che nella società si aggregasse e dalle urne uscisse vincente una formazione come il Movimento 5 Stelle (tenuta finora insieme dalla critica e dall’interdizione dell’azione del governo che altri partiti assicurano al paese), e che si alimentasse in questi una “dialettica” proiettata ogni giorno sui media con dichiarazioni e messe a punto, comparsate in TV e cinguettii e annunci sulla Rete; nonché dinamiche, divaricanti fino alla scissione, di Scelta Civica e del Pdl-Forza Italia, fino al ricompattamento “unitario” del Pd a spese di Enrico Letta e del suo governo.
In questi giorni, mentre il Pil italiano registra finalmente un segno positivo dopo molti trimestri di segno opposto, lo spread scende sotto i duecento punti e un’agenzia di rating riporta, dopo anni, l’outlook sull’Italia da negativo a stabile, Letta potrà apprezzare l’opportunismo dei partiti: come pure ebbe modo di apprezzarlo Mario Monti, nel dicembre 2012, quando lo spread scese sotto i 300 punti, ed il leader del centrodestra lo indicò al popolo come il responsabile di tutti i guasti sociali e drammi umani conseguiti alle misure del suo governo, fino al giorno prima da lui stesso approvate.
Forse gli storici si impegneranno un giorno – più di quanto stiamo facendo noi, testimoni del tempo – ad analizzare e spiegare le relazioni che si sono stabilite, in questa fase, fra il “lavoro sporco”, la responsabilità politica e il “metterci la faccia”. E anche il ruolo assunto dalla Confindustria, che ha pensato bene di attaccare anche sui grandi media finanziari del mondo i governi “di servizio” alla Repubblica, proprio mentre i primi ministri andavano esortando gli investitori internazionali a venire in Italia (6 aprile 2012 e 2 febbraio 2014).
Certo, nella crisi ormai latente delle istituzioni e nel rapporto non pacifico con l’Europa, dobbiamo sperare che una consapevolezza e un’assunzione di responsabilità finalmente adulte della “politica” diano al paese le riforme indispensabili alla vita della nostra democrazia e alla salute delle nostre pubbliche finanze. Aiuterebbe se dalla “società civile” emergesse qualcosa di diverso da organizzazioni di imprenditori che non aprono bocca quando vedono nascere un governo alla condizione che l’Imu sulla prima casa sia soppressa, che concorrono alla lapidazione mediatica di un ministro che chiede di riflettere bene sulla sensatezza di una misura che ha reso ancora più difficile ridurre il cuneo fiscale e gli oneri contributivi sul lavoro, e che ora vediamo impegnate a contendere le piazze ai forconi, più che a indicare obiettivi strategici e formulare proposte degne della classe dirigente che manca a questo paese. Come pure qualcosa di diverso da organizzazioni di lavoratori impegnate in alleanze – tattiche quanto subalterne – e in scazzottate – interne quanto pubbliche – più che a promuovere un rilancio dello sviluppo produttivo che incida su una realtà segnata certamente dalla crisi, ma anche, e da decenni, dalle 46-47 forme contrattuali considerate “normali” che trattengono milioni di italiani, anche non più giovani, nel precariato del lavoro, e quindi sulle soglie della cittadinanza repubblicana: mentre il 65% delle nostre imprese, nel 2013, risulta irregolare ai controlli del ministero del Lavoro per assunzioni in nero, abuso dei contratti flessibili, impiego di stranieri senza regolari permessi.