La metafisica per Kant è l’esigenza di cogliere ciò che è posto al di là dei sensi; perciò è una “scienza” inaffidabile poiché non si basa sulle certezze empiriche, come ad esempio la fisica. Kant contrappone alla metafisica un nuovo criterio di verità, affermando che una cosa è vera quando è accompagnata dalla ragione e dall’esperimento, cioè quando è unione di forma e contenuto: il contenuto è il materiale raccolto dall’esperienza sensibile, mentre la forma è il criterio di “assemblaggio” dei dati provenienti dall’osservazione.

Il romanticismo tedesco, rifiutando la tesi positivistica dell’omogeneità tra fatti della natura e fatti storico-culturali e il conseguente monismo metodologico che assimila le “scienze dello spirito” alle “scienze della natura”, introduce una diversa costituzione ontologica dell’oggetto delle prime rispetto all’oggetto delle seconde. Le scienze della natura hanno a che fare con fenomeni estranei alla coscienza dell’osservatore, mentre i fatti storici, culturali, sociali, politici ed economici possono essere compresi solo sulla base dell’esperienza psichica degli uomini. Ciò significa che i fenomeni storico-sociali sono «vissuti» dai soggetti che concorrono a determinarli; il che non accade per i fenomeni che appartengono al mondo naturale. La comprensione del “mondo della vita” da parte dell’uomo, perciò, non può basarsi sulle categorie della causalità, ma sulle categorie di scopo, significato, valore.

Jean Petitot, in “Per un nuovo illuminismo”, pur aderendo alla prospettiva metodologica kantiana, sostiene l’idea che le scienze dello spirito sono delle scienze della natura, nel senso che la conoscenza cui è pervenuta l’umanità porta a formulare il concetto di “natura” in modo tanto allargato da permettere, da un lato, di assumere i fatti naturali come natura fenomenica organizzata secondo strutture morfologiche sulle quali i sensi si sono adattati nel corso dell’evoluzione; dall’altro, di consentire alle scienze dello spirito di sviluppare una teoria naturalista delle strutture cognitive della descrizione e della spiegazione dei fatti storico-culturali, ponendo in relazione diretta l’orizzonte conoscitivo con il problema della libertà e della difesa di una prassi politico-civile da adottare nell’ambito della prospettiva liberale della società aperta di Karl Raimund Popper e di Friedrich Hayek.

Tutto ciò, per costruire un “realismo empirico”, elaborando un nuovo concetto di oggettività che non abbia più nulla a che vedere con la tradizionale ontologia metafisica. A tal fine, il filosofo-matematico francese ripropone criticamente il rapporto tra l’oggettività delle scienze della natura e la possibile ricostruzione cognitiva del “mondo della vita”, in grado di spiegare su basi fisicaliste i fenomeni storico-culturali. E aderendo alla definizione che Kant dà dell’illuminismo, come “autoliberazione dell’uomo dallo stato di minorità volontaria”, Petitot afferma che una società democratica, libera e aperta, non può che presupporre l’esistenza al suo interno di soggetti dotati di coscienza autonoma, perché nella prospettiva neoilluminista da lui proposta le scienze possono essere strumenti di emancipazione, a patto che la conoscenza che da esse può essere derivata sia pensata in termini teleologici e connessa a una riflessione sul destino ultimo dell’essere. E’ in questa prospettiva che dovrebbe evolvere la società libera e aperta di Popper e di Hayek.

Il senso della proposta neoilluminista di Petitot è tutto raccolto in questa conclusione; una conclusione che non apre a una prospettiva di libertà per gli uomini, in quanto si riduce ad indicare una strada che gli uomini stessi, come “morti viventi”, ma consapevoli, devono percorrere negando a sé stessi ogni possibilità di una autoaffermazione. Per rendersi conto di ciò, basta riflettere sulle tesi che Petitot sostiene in difesa del capitalismo e dell’economia di mercato, contro gli errori,a suo parere, sul piano del metodo, delle concezioni socialiste, considerate la parte oscura dell’illuminismo.

Alla base della superiorità del capitalismo starebbe un fenomeno caratteristico delle società moderne, quello della complessità auto-organizzativa. Il suo riconoscimento ha numerose implicazioni che improvvidamente non sempre gli uomini sono disposti ad accettare. In primo luogo, la natura auto-organizzativa della società capitalista “arcaizza” altre forme alternative di società, quali quella comunitaria e quella costruttivista-razionalista. La società auto-organizzata è complessa ed evoluzionista, nel senso che è l’esito inintenzionale di un processo evolutivo che è impossibile ricostruire razionalmente. In conseguenza di ciò, nella società capitalista i saperi, le conoscenze e le competenze sono distribuiti tra gli agenti in modo tale che risulta impossibile centralizzarli, in quanto per sua natura la complessità rende “accentrato” il funzionamento della società. Ma poiché può auto-organizzarsi, essa utilizza altri “meccanismi” di intelligenza distributiva, il mercato, il cui controllo si tradurrebbe in un grave errore scientifico. In secondo luogo, la complessità impone limiti assoluti alla trasparenza del corpo sociale, in quanto la divisione del lavoro e del sapere lo rendono opaco. Questo spiega il ruolo fondamentale del libero mercato, la cui universalità nel realizzare la circolazione delle informazioni non ha nulla a che vedere con i fatti economici, in quanto è l’unico mezzo efficiente ed efficace per comunicare informazioni in un sistema complesso e opaco, ma auto-organizzato. Infine, le regole che governano gli scambi e la comunicazione sociale sono astratte e informali e la funzione dello Stato in un sistema sociale che si auto-organizza, governato democraticamente, non è tanto quella di pianificare il suo funzionamento, ma quella di garantire il libero svolgersi dell’auto-organizzazione. Per tutte queste ragioni, il “progressismo politico”, pretendendo di poter negare o controllare gli esiti indesiderati dell’auto-organizzazione, risulta essere regressivo e dannoso agli interessi dell’intero corpo sociale sia a livello individuale, che collettivo.

E’così? A cosa serve un nuovo illuminismo se, pur naturalizzando le scienze sociali, non ammette che, utilizzando le maggiori conoscenze rese possibili dal processo di naturalizzazione, gli uomini possano controllare l’evoluzione del loro sistema sociale a causa della complessità e dell’opacità dell’evoluzione auto-organizzata? Perché il neoilluminismo proposto da Petitot, a differenza dell’illuminismo di Kant, non consente all’uomo di autoliberarsi dallo “stato di minorità volontaria” e deve invece “canalizzare” la maggior conoscenza della quale dispone solo per tentare di conoscere verso quale possibile fine lo conduce il sistema sociale del quale è parte, limitandosi solo a riflettere supinamente sul suo destino ultimo?

La proposta che Petitot avanza per la percezione del fine ultimo dell’evoluzione sociale è un’escatologia che non è in linea con i risultati del razionalismo critico moderno, sulla base del quale è possibile sostenere che la tesi del matematico-filosofo francese, anche alla luce dell’esperienza negativa che caratterizza le società auto-organizzate allo stato attuale, non vale a dimostrare la presunta superiorità della società capitalista rispetto alle società socialista; anzi, il razionalismo critico consente di sostenere realisticamente il contrario.

Se lo scopo ultimo della scienza è la comprensione e la modellizzazione della realtà dei fatti naturali e storico-culturali al fine di potere prevedere e possibilmente intervenire per migliorare o evitare lo sviluppo di uno o più di questi fatti, allora gli uomini essendo, come Kant osserva, dei “diavoli razionali” impiegano la ragione della quale dispongono per controllare le loro condizioni esistenziali, contribuendo così, se del caso, a migliorare l’ambiente naturale e sociale nel quale vivono. Non riconoscere, come fa Petitot, quest’opzione che la ragione offre agli uomini, significa negare la loro progressiva autoaffermazione, perché possano liberarsi dalla “progressiva condizione di minorità” di fronte al rischio di condurre una vita dominata sempre da forze a loro estranee.