Michal Gatem è una ragazza israeliana di 27 anni che ha lasciato in questi giorni la sua casa di Beersheba per dedicarsi a dare una sorta di carta d’identità ai morti palestinesi di Gaza. “Sono una delle vittime. Mi chiamavo così e così e avevo […] anni”. Una ricerca, insieme, emotivamente insostenibile, faticosa e gravida di rischi; ma anche l’apertura di una nuova prospettiva che, con l’assistenza di Dio, renderà, magari in un futuro non troppo lontano la nostra ragazza candidata indiscussa al premio Nobel per la pace.
La Gatem forse non se ne rende conto. Ma la presentazione (o vogliamo dire l’umanizzazione ?) delle sue vittime innocenti ha per destinatari non solo gli israeliani ma anche l’Occidente, e in particolare l’Europa. Viviamo da settant’anni in una condizione di pace. Al punto di averne assorbiti i valori e la cultura, anche in una sorta di vulgata buonista che rigetta l’idea stessa di violenza politica di massa. Perché, allora, accettiamo senza reagire la sua pratica sempre più diffusa alle nostre frontiere?
Per molto tempo si è parlato di Venere e di Marte della nostra debolezza rinunciataria e del vigore decidente e decisivo di altri. Una polemica di cui non c’è più traccia; anche perché non ha portato fortuna ai suoi autori. I nostri limiti, in realtà, sono altri: e nascono da un Bene non conquistato ma ereditato, e perciò caratterizzato dall’incapacità di misurarsi con il Male al punto di rifiutarsi di guardarlo.
Ci indigniamo per i cadaveri di immigrati sulle nostre spiagge. Salvo cancellare come clandestini i sopravvissuti. O a stancarci dei salvataggi in mare quando gravano sulle nostre spalle. O a sperare che qualche paese africano, non importa se d’origine o di transito, provveda alla bisogna di non farli partire.
Le grandi cifre dei massacri mediorientali – e quelle ancora piccole di quelli ucraini – con ci coinvolgono; sono, tutt’al più testimonianza di follie collettive che non ci appartengono.
Seguiamo con permanente attenzione – questo sì – il conflitto israeliano-palestinese, per effetto di tradizionali pulsioni ideologiche o di reciproci, anche se opposti, sensi di colpa: un’antica attenzione che impedisce al conflitto stesso di oltrepassare certi limiti, nel tributo di sangue o nella durata, ma non fino al punto di portare i contendenti – e in particolare quello più forte – sulla strada della pace.
In questo universo, l’elenco della Gatem è un messaggio artigianale affidato alla rete nella speranza che qualcuno lo raccolga e ne capisca il significato.
Può darsi che il miracolo avvenga. Che qualcuno veda nella sua povera lista una rivendicazione, importante in sé, dell’eguale dignità delle vittime. E può darsi anche che l’innocenza delle vittime illustri di riflesso i miserabili calcoli di chi ha provocato lo scontro: da una parte per rivendicare la moralità un po’ sinistra della rappresaglia, dall’altra per utilizzare cadaveri di innocenti come giustificazione di futuri scontri o magari come via per sedersi al tavolo della pace.
Può darsi che la cosa funzioni; come funzionerà, almeno credo, nel caso ucraino. Un conto soffermarsi distrattamente sui comportamenti anomali di alieni che si ammazzano tra di loro; tutt’altro conto guardare a cadaveri di innocenti turisti europei con accanto a loro oggetti personali e notizie sulla meta della loro vacanza. Può darsi. E può darsi anche di no. In ogni caso Michal ha fatto un gesto di enorme valore; perché (come diceva Nietzsche) “dare un nome alle cose allevia i dolori del mondo”.