Secondo l’agenzia Public policy, un disegno di legge sulle lobbies – all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri circa dieci mesi fa – è stato rinviato sine die in ragione del fatto che il cuore stesso del lobbismo, il Parlamento nazionale, non potrebbe soffrire una regolamentazione diversa da quella derivante dagli organi interni delle Camere (gli Uffici di presidenza, i quali peraltro in sessant’anni di storia repubblicana si sono guardati bene dall’esercitare questo potere). Quel che è peggio, ad analoga iniziativa del governo Renzi si opporrebbe la sopravvivenza dell’autodichia, che sarebbe stata consacrata dalla sentenza n. 120 del 2014 (relatore G. Amato) e che osterebbe ad ogni ingerenza nel “dominio riservato” delle Camere senza attivare prima un conflitto di attribuzioni.
In effetti con la sentenza n. 120 del 2014 la Corte costituzionale si è riservata la possibilità di decidere – se adeguatamente investita mediante lo strumento del conflitto di attribuzioni – quali siano le norme interne alle Camere, in “nesso funzionale” con l’attività parlamentare che possono impedire l’accesso al giudice esterno perché rientrano appieno nell’esaustiva capacità qualificatoria del regolamento parlamentare. La sentenza Amato ha definitivamente sepolto la tesi “geografica”, indicando quella del “nesso funzionale” tra guarentigia ed attività propria delle Camere: una tesi che era stata sostenuta da alcuni disegni di legge della scorsa legislatura, ripresi nella presente dal senatore Buemi ed illustrati da Testa-Gerardi, Parlamento zona franca, Rubbettino, 2013.
Eppure, se su altri ambiti il dubbio è legittimo, è semplicemente inaudito che si debba arrivare al contenzioso costituzionale per accertare se spetti o no alla legge “esterna” disciplinare la rappresentanza di interessi nelle sedi istituzionali. Ci sarebbe da chiedersi a chi giovi una tesi così autolesionista, che crede utile avvolgere Gulliver in una ragnatela: come se, adducendo immotivate resistenze pseudo-istituzionali, si volesse giustificare un passato inerziale, piuttosto che guardare alle prospettive future della modernizzazione politica nel nostro paese.
Seguendo l’accezione “geografica” dell’autodichia, finora la regolamentazione delle lobbies è stata sottratta alla legge, ma soltanto in virtù di un’interpretazione estensiva del tutto impropria: lo dimostra il fatto che gli Stati Uniti d’America disponevano di un Federal Regulation of Lobbying Act già nel 1946 (che Clinton inasprì con il Lobbying and Disclosure Act of 1995), e che Lobbying Act esistono in moltissimi ordinamenti di stampo anglosassone. Persino la “madre di tutti i Parlamenti”, la Camera dei comuni, ha proceduto a disciplinare la materia con legge nel gennaio scorso: la polemica condotta da Ed Milliband contro il testo è stata, semmai, volta a renderne più stringenti le previsioni.
Non è necessario sottolineare i vantaggi che le esigenze di certezza del diritto – prima che delle stesse garanzie dei soggetti coinvolti nel rapporto di lobbying – ricaverebbero dal sottrarre la materia al cono d’ombra nel quale attualmente esse vive, alimentando pratiche ad alto rischio di fraintendimento; ci si limita a richiamare la nozione di “scambio politico” dei nostri elitisti di inizio Novecento, nonché la critica (immortalata da Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia) alla nozione rousseauviana della volontà generale, che annega i moventi del rapporto tra ceti dirigenti e classe politica in un’indistinta notte in cui tutte le vacche sono nere.
Piuttosto va considerato quanto sia inefficace rimettere la normazione in materia all’autocrinia delle Camere (invece di coinvolgerle, come sarebbe giusto, solo nella sua applicazione): non soltanto perché si tratta di uno dei termini del rapporto (il che – di tutta evidenza – spiega anche perché sinora il Parlamento abbia scelto la tattica inerziale); soprattutto perchè l’inefficacia riposa nel fatto che ad ogni regolamentazione corrisponde una possibilità di violazione e ad ogni violazione una possibilità di sanzione.
Nella sua propensione al mito esterofilo, la nostra cultura giuridica approccia la questione delle sanzioni parlamentari verso i terzi richiamando la cella in cui, ancora a fine Ottocento, a Westminster era conservato un posto per chi fosse dichiarato in contempt of the House. Già all’epoca la trasposizione dell’istituto della “autodichia geografica” nella nostra realtà aveva avuto riflessi macchiettistici, come dimostrò il suo utilizzo, nell’estate 1943, da parte del generale Cavallero, a palazzo Madama per evitare le retate badogliane (Ferrari Zumbini, Appunti e spunti per una storia del Parlamento come amministrazione. Il Senato, in “Rivista di storia del Diritto italiano”, 1987).
Ma il mito è stato scardinato dalla moderna declinazione a tutto campo del principio del giusto processo: per restare ai precedenti stranieri, lo smantellamento del presupposto immunitario è avvenuto ad opera del Report of joint committee on parliamentary privilege di Lord Nicholls, nella sessione parlamentare inglese 1998-99; proprio il 7 maggio scorso, a Washington, s’è avuta la trasmissione all’Attorney General del fascicolo del funzionario renitente alla testimonianza dinanzi ad una commissione del Congresso statunitense, affinché la giustizia ordinaria faccia il suo corso.
Da noi il giudice Mezzanotte, da relatore nel 1996 della capostipite sentenza n. 379, quei medesimi princìpi invocò, affinché anche nel micro-ordinamento parlamentare avesse ingresso la “grande regola” dello Stato di diritto. Ancora il 19 maggio scorso, al convegno svoltosi a palazzo della Consulta sugli organi costituzionali, s’è adombrato il rischio di una delegittimazione istituzionale se, come ha detto il giudice costituzionale Marta Cartabia, “non si riconduce l’autonomia a sistema”. E stiamo ancora a farci domande oziose su quale strumento normativo debba disciplinare il lobbying?
La legge, e solo la legge, può imporre prestazioni personali o patrimoniali coattive (articolo 23 Cost.): sottoporsi ad un controllo dei requisiti di abilitazione per entrare nei Palazzi, firmare un registro per accedere in un locale “dedicato”, dichiarare un contributo economico ad un partito o una misura di sostegno elettorale ad un candidato, sono tutte operazioni la cui imposizione comporta una coercizione e la cui violazione comporta una possibilità di sanzione. Bene sarebbe mantenere – nello spirito del diritto penale minimo, che informa la politica legislativa degli Stati moderni – queste sanzioni per lo più a livello meramente amministrativo: ma anche un ritiro di passi, una fideiussione incamerata, una pubblica reprimenda richiedono un giudice a cui far capo, per dolersi di cattive applicazioni della legge.
Sarà un giudice civile, se vogliamo far prevalere l’aspetto di diritto “civile e politico” di cui all’articolo 5 dell’allegato E della legge 20 marzo 1865, n. 2248; sarà un Tar, se vogliamo far prevalere la “giustizia nell’amministrazione” e sottoporre a scrutinio decisioni che sono imputabili ad un soggetto amministrativo investito di pubblici poteri. Ma un giudice esterno dovrà essere. O vogliamo veramente rimettere la concessione e la revoca di queste decisioni, ed altre consimili che coinvolgono soggetti rappresentativi di interessi (anche economici), al bacio della pantofola, nel chiuso degli interna corporis?