Queste elezioni sono state un verdetto di morte. Per tutte le culture politiche della prima – e anche della seconda repubblica – e per le formazioni che le rappresentavano.
Scomparsi: i postfascisti, i liberali, i democristiani e/o i centristi, i repubblicani, i socialisti, i verdi, la sinistra radicale , di tipo sociale o giustizialista.
I leghisti al livello minimo del 2001; in quanto ai democratici, hanno continuato a fare il vuoto intorno a loro, seguendo, magari senza rendersene conto, il modello di Veltroni del 2008; ma per ottenere un risultato di otto punti inferiore a quello di allora. A destra, il Pdl tiene i risultati di Forza Italia nel 1994; ma aggrega intorno a sé una massa indistinta di frattaglie.
La sconfitta, peraltro, è anche dei partiti in quanto “trasmettitori di messaggi”e di iniziative politiche riconoscibili e condivise. E in questo caso particolarmente del Pd; l’unico che pretendesse di costituire un collettivo (o, nel pessimo neologismo in voga, una “squadra”). Sarà; ma nessuno se n’è accorto. Perché questo grande e glorioso collettivo non è stato in grado di trasmettere un messaggio che è uno; se non quello di una voluta vaghezza di idee e di propositi; vaghezza che si è trasformata in un handicap catastrofico sui due temi fondamentali dei rapporti con il centro e di quelli con l’Europa.
Certo, il centro-sinistra ha vinto. Ma la sua è chiaramente una vittoria di Pirro; di più un successo ( il 55% dei seggi con il 30% dei voti…) che rischia, a breve di tradursi in un vero e proprio boomerang politico. Per il semplice fatto che spetterà a Bersani di presentare una proposta di governo, in un contesto in cui in queste proposte o non sono praticabili o hanno, comunque, per il Pd, un costo politico a tutti evidente. Tanto che all’interno dello stesso partito democratico, già ci si comincia a dividere, e in modo plateale, sulla linea da seguire. Ma su questo punto avremo modo di tornare in conclusione.
Per tornare, qui su due altri “verdetti”di questa tornata elettorale. Che riguardano, insieme, la natura della sinistra e il nuovo discrimine destinato a segnare il confronto politico nel nostro paese. Per capire la natura del problema partiamo da una duplice constatazione. Primo: la sinistra di governo come quella radicale sono, ambedue, uscite sconfitte dalle urne. Il Pd, si diceva, è otto punti sotto il 2008; siamo al 25%; più o meno sui livelli del solo Pci nei primi decenni del dopoguerra. In quanto alla sinistra radicale, nel modello sociale come in quello giustizialista, questa, pur in una situazione apparentemente molto propizia, è ridotta ai minimi termini.
A mangiarsi tutto, a raggiungere, di primo acchitto, un risultato senza precedenti nella storia politica italiana ed europea (dal nulla a primo partito, con quasi otto milioni e mezzo di voti) è una nuova formazione politica; una formazione che ha ereditato la maggior parte dei suoi consensi dalla sinistra tradizionale per la duplice e ottima ragione di rappresentare, essa sì, una “costola della sinistra”, ma al tempo di modificarne, anche in modo radicale, i tradizionali parametri di riferimento. “Costola della sinistra”, indiscutibilmente, nel messaggio e soprattutto, nella natura del personale politico incaricati di trasmetterlo.
Mutamento radicale nei parametri: schematizzando al massimo, non più lavoro contro capitale o onesti contro corrotti, ma piuttosto cittadini contro casta. Una casta che, agli occhi di tutti, appare globalmente responsabile dei disastri dell’ultimo ventennio. Populismo di sinistra, dunque. In un orizzonte che comprende necessariamente un giudizio negativo sull’Europa come è e come si manifesta. Un messaggio, anche questo, per la nostra sinistra di governo: giusto e doveroso scommettere sulla dimensione europea; ma, per favore, avendo qualcosa in mano; altrimenti il nostro, doveroso, internazionalismo rischia di non essere né capito né apprezzato.
In questo clima e con questo mandato il Movimento cinque stelle appare oggettivamente ingestibile: almeno come punto di riferimento di alleanze e/o accordi di tipo tradizionale; tanto più se riferibili a combinazioni di governo. Ed è questa una delle premesse indispensabili per assumere un qualsiasi orientamento sul “che fare”. Già ci si divide, al riguardo, tra sostenitori del governissimo e partigiani dell’accordo con Grillo; con il contorno di richieste di dimissioni di Bersani.
A nostro modestissimo avviso due strade o politicamente rovinose o impraticabili. Praticabile, o comunque corretto, è invece, ipotizzare un governo di minoranza, con un programma preciso e limitato nel tempo (riforma elettorale e istituzionale – non c’è doppio turno senza semipresidenzialismo – , misure urgenti per l’economia, apertura di un confronto con i nostri partner europei; e che chieda, su questa base, i necessari concorsi parlamentari. Probabile o comunque corretto. Almeno in teoria. Nella pratica un film tutto da scrivere.