Sono d’accordo su numerosi punti affrontati da Gianfranco Sabattini nell’articolo “Eusocialità ed intenzionalità”. Innanzitutto sul fatto che la complementarità tra liberalismo e liberismo nel senso in cui la pone Luigi Einaudi è indispensabile per le società aperte moderne: e penso come lei che il ruolo regolatore dello Stato di diritto, delle istituzioni, delle regole comportamentali e delle convenzioni sono essenziali. In secondo luogo, sono d’accordo sul fatto che le capacità cognitive superiori dell’homo sapiens gli hanno aperto i domini della cultura, del senso e della storia.

Ovviamente, l’uomo è un soggetto nel significato più forte del termine: un soggetto della volontà e della libertà, un soggetto ermeneutico, un essere che ha un destino e che può conquistare il senso della sua esistenza e lottare per l’autenticità autoriflessiva della stessa. Poiché entrambi ci riferiamo a Kant, possiamo dire che l’uomo, in quanto persona, è un essere pensante. D’altronde una gran parte delle mie ricerche hanno fatto, e continuano a fare, sempre riferimento alla fenomenologia husserliana e alla ragione kantiana (alle idee della ragione che regolano la conoscenza). Conosco molto bene John Searle e condivido ciò che lei dice sul suo pensiero.

Sono anche d’accordo sul fatto che le regole, permettendo ai soggetti di vivere in società, costituiscono dei codici di comportamento accettati e condivisi collettivamente. Il linguaggio ne è l’esempio. La socializzazione degli uomini è stata resa possibile solo sulla base di “grammatiche”, tali da funzionare come le regole di un gioco, tanto per fare riferimento a un’analogia spesso utilizzata dopo Wittgenstein. Sono infine d’accordo sul fatto che sia necessario un “surplus istituzionale” perché gli uomini socializzati siano portati a rispettare le regole collettive e le “grammatiche” condivise. La deontologia è cruciale. Si tratta di un aspetto della “ragion pratica” (nel senso di Kant) di ciò che lei chiama “eusocialità”. Insomma, Stato di diritto, istituzioni, soggetti intenzionali, volontà, libertà, regole “grammaticali” condivise, eusocialità costituiscono i sette pilastri sui quali è fondata la conoscenza del sociale.

A partire da questi punti sui quali entrambi concordiamo passo a formulare succintamente ciò che mi divide da lei. Innanzitutto, quale che sia il livello evolutivo dei soggetti di una determinata specie (per l’homo sapiens, incluso il livello di evoluzione culturale), esistono diversi modi di “fare società”. Il primo, che è prevalente nei mammiferi superiori, è quello che si può chiamare “comunità”, intesa come gruppo familiare allargato: dai branchi dei canidi ai gruppi di primati, dalle orde preistoriche alle tribù tradizionali. I livelli cognitivi nei diversi casi sono molto differenti, ma la caratteristica di queste comunità, con le loro regole etologiche comportamentali (gerarchismo, altruismo, ecc.), è espressa dal fatto che i legami comunitari sono acquisiti attraverso l’esperienza dei singoli soggetti che le compongono. Si può perciò dire che l’organizzazione comunitaria è “cognitivamente comprensibile”. Per l’uomo ciò corrisponde al fatto che l’esperienza comunitaria è, come lei afferma, “percepibile”.

Un altro modo di “fare società” è quello delle greggi (come accade in molte specie di erbivori), delle colonie e dei voli (come accade in molte specie di uccelli), dei banchi (come accade in molte specie di pesci). Si tratta di fenomeni che sollevano problemi scientifici importanti, svolgenti un ruolo fondamentale nella comprensione dei comportamenti umani delle folle colte da panico e dei comportamenti imitativi (per esempio nel caso delle bolle finanziarie da speculazione), come è stato spiegato da numerosi economisti e sociologi (da Charles Kindleberger ad André Orléan a Vernon Smith).

Un terzo modo di “fare società”, del quale vorrei sottolineare l’importanza, è la formazione di una reale dimensione sociale che trascende i singoli soggetti. E’ il caso degli insetti sociali: i tratti caratteristici delle loro mega-organizzazioni sociali sono: (i) che i singoli che le compongono seguono determinate regole etologiche, precise, elementari e differenziate nel senso di una divisione del lavoro; (ii) che il numero è molto grande, tale da comportare la necessità di distinguere due livelli radicalmente differenti: quello “micro” dei singoli individui e quello “macro” dell’intera “società”, organizzata attraverso strutture che si formano sulla base di un numero considerevole d’interazioni; (iii) che il gran numero delle interazioni che avvengono secondo regole elementari concorre a costruire, attraverso un processo auto-organizzativo “spontaneo”, delle strutture sociali totalmente nonrilevabili dalle capacità cognitive delle quali i singoli individui sono dotati.

Occorre sottolineare questo miracolo dell’evoluzione biologica. Le “architetture” sociali che si realizzano “senza architetto”, quali sono per esempio i termitai, sono grandi macrostrutture spaziali collettive (a scala umana, vaste di una decina di km quadrati) altamente sofisticate, i cui modelli esplicativi matematici sono tutt’altro che triviali (cfr., per esempio, i lavori di Jean-Louis Denebourg, Guy Theraulaz, Bernard Manderick). Le macrostrutture sono fondate su una divisione del lavoro non supervisionato ed è dal loro studio che ha tratto origine il concetto di “eusocialità”. Le architetture sono funzionali rispetto ai bisogni delle popolazioni che le abitano, e, come dei veri edifici, sono fatte di pilastri, di muri esterni, di gallerie, di spirali per la ventilazione e il condizionamento climatico, di camere (come, ad esempio, quella reale o quella destinata a fungere da asilo-nido), di una base terrazzata, di condotte e di travi. Le architetture, per quanto possano essere descritte, sono totalmente inaccessibili e non-percepibili dagli agenti che le costruiscono.

Poiché occorre una parola per indicare questa terza forma di “fare società”, opposta alla forma comunitaria, io utilizzerò quella, ormai divenuta uno standard linguistico, che anche lei utilizza (però in un senso un po’ differente) di “organizzazione eusociale”, per evidenziarne l’intelligenza collettiva (nel senso di “intelligenza sparsa”). Le organizzazioni eusociali sono delle “grandi società”, delle ipersocietà “termodinamicamente calde”, come le chiamava Claude Lévi-Strauss con riferimento alle società umane moderne.

Il punto per me cruciale è che esistono due forme di complessità evolutiva nettamente differenti: da una parte, una complessità cognitiva “verticale” che comporta un arricchimento particolarmente significativo delle facoltà cognitive dei singoli individui; dall’altra, una complessità cognitiva “orizzontale” (eusociale), che comporta una divisione del lavoro, un’intelligenza sparsa ed un cambiamento del livello della forma organizzativa della società di natura micro-macro: l’intelligenza individuale cresce, ma il gruppo conserva un’organizzazione comunitaria (è ciò che è avvenuto con l’evoluzione delle società animali verso i primati, poi verso l’homo sapiens dei tempi preistorici); oppure, l’intelligenza individuale non cresce, ma il gruppo diviene eusociale e il processo evolutivo permette a un’intelligenza collettiva di emergere.

Gli uomini sono dei primati evoluti e una parte delle caratteristiche umane delle quali lei parla si colloca sull’asse “verticale” dell’evoluzione cognitiva realizzata attraverso l’evoluzione culturale. Questo è il vero punto: non esiste un’organizzazione eusociale presso i primati. Ciò posto, una caratteristica essenziale dell’evoluzione storica dell’uomo è che a partire dalla formazione delle grandi civiltà urbane (che vanno contrapposte alle culture tradizionali) – dopo la sedentarizzazione dei cacciatori-raccoglitori, l’invenzione dell’agricoltura, delle attività di allevamento, delle tecniche e delle geometrie urbane, della scrittura, del saper far di conto, delle vie di comunicazione terrestri e marittime, ecc. – si è prodotta una cesura fondamentale dalla quale è emersa, secondo ritmi vertiginosi, una complessità cognitiva “orizzontale” eusociale totalmente estranea alla linea evolutiva dell’homo sapiens e che esisteva solo presso le popolazioni degli insetti sociali.

L’intelligenza umana è dunque, non solo molto complessa, ma si sviluppa secondo ritmi in qualche modo “al quadrato”, sia a livello cognitivo individuale che a livello eusociale. E le regole collettive condivise delle quali lei parla sono precisamente il legame tra questi due livelli. Per questo motivo io penso che Mandeville ha ragione nel sostenere il significato della sua Favola delle api. Utilizzando il genere letterario della favola egli evidenzia un’analogia che io formulerei nel modo seguente: la civiltà moderna sta all’uomo moderno come l’arnia sta all’ape. Da una parte gli individui (intelligenti, razionali, ecc.) che seguono regole di comportamento e d’azione che, se valide e rispettate, trasformano le innumerevoli interazioni in un ordine eusociale spontaneo. Dall’altra la complessità interna di quest’ordine non-percepibile dall’intelligenza e dalla razionalità degli agenti: è a causa di questa mancata percezione che si può parlare di effetti “inintenzionali” dell’agire umano.

Io non penso dunque che un’intelligenza ed una razionalità sufficientemente sviluppate possano permettere di rendere la complessità interna dell’euosocialità comprensibile e trasparente, percepibile e descrivibile. Ciò accade per una sorta di principio d’incompletezza: per una data specie A, dotata di una data intelligenza e razionalità, la complessità eusociale delle macro-società formate da agenti della specie A trascende le capacità cognitive di ogni loro singolo componente.

Se si ammette l’ipotesi della due complessità, sorge allora, naturalmente, il problema della loro compatibilità, in quanto niente permette di supporre che la complessità cognitiva sia compatibile con la complessità eusociale. La tesi dell’inpercepibilità può anche implicare l’esistenza di una certa incompatibilità; questa però, quando esiste, è dovuta all’esistenza di un conflitto dialettico tra le due forme di complessità cui prima ho accennato. In altre parole, si tratta di ciò che io chiamo “paradosso di Mandeville”, dal quale può derivare una sorta di inversione di valore tra l’individuale ed il sociale; è qui, secondo me, che si trova la radice dell’”insocievole socievolezza” e del problema del Leviatano.

Per precisare meglio le cose occorre, io credo, tener conto della differenza che esiste tra regole “grammaticali” e contenuti semantici. Io sono d’accordo con lei sul fatto che le capacità cognitive dell’uomo permettono, con l’ausilio delle istituzioni, di elaborare e di rendere operative delle regole grammaticaliproduttrici di eusocialità; ma non possono esistere dei sensi esistenziali eusociali, né rappresentazioni della complessità cognitiva “orizzontale”. Nel quadro teorico di Hayek, che è poi il mio, la complessità eusociale è denominata catallattica, la quale non ammette la collettivizzazione di nessuna intenzionalità: i fini dei soggetti sono eterogenei, nel senso che non esistono fini omogenei di tutti. Ciò che vorrei sottolineare, utilizzando un lessico kantiano, è che l’uomo non si può collettivizzare. Si può applicare a tutto ciò che dà un senso alla vita – comprese le opzioni politiche e religiose che possono, come lei dice, essere “un elemento collante che tiene insieme le società umane” – quanto Kant afferma nell’Analisi del giudizio sui giudizi estetici: esiste una capacità di giudizio universale, ma i giudizi estetici sono “senza concetto”, nel senso che non esistono contenuti estetici universali.

Ecco la tradizione che io condivido, che è poi quella della tolleranza dopo Pierre Bayle: l’esistenza di una pluralità di “elementi collanti” che uniscono gli individui nel senso di essere “legati tra loro” (o anche l’inesistenza di un consenso su dei significati collettivi) non esprimono un rischio, in quanto le interazioni degli agenti, anche se caotiche in senso tecnico, si auto-organizzano spontaneamente in un “cosmo”.

Io condivido il suo parere sulle istituzioni e le regole. Gli uomini sono i signori delle loro regole “grammaticali” e ciò evidenzia bene la loro volontà e la loro libertà; tutto questo però non implica che essi siano i signori del loro destino, membri di una grande società aperta. Questo destino non è prevedibile sulla base delle regole adottate e un aspetto della sua non-prevedibilità è che, all’interno di un’organizzazione eusociale complessa, gli agenti non posseggono le capacità cognitive per “calcolarne” la portata. Le regole sono intenzionali, ma le loro conseguenze sono inintenzionali. E’ ciò che accade in matematica: comprendere gli assiomi d’una teoria non significa, nel modo più assoluto, conoscere anche i teoremi della teoria.

Naturalmente si può uscire dal paradosso di Mandeville in diversi modi. Per esempio, ci si può ritirare dalla complessità eusociale ed entrare a fare parte di una qualche comunità. Nella storia della modernità esiste un gran numero di varianti di questa opzione (sino ai “no-global” dei giorni nostri). Si può ugualmente, come hanno fatto i teorici dell’assolutismo da Bodin a Hobbes, cercare di controllare politicamente la complessità catallattica imponendo delle regole delle quali si possano “calcolare” le conseguenze. E’ ciò che Hayek ha denominato “costruttivismo”, opzione che conduce al totalitarismo. Ma io credo che, per ragioni pragmatiche ed etiche, sia più utile conservare aperta la dialettica (perché si tratta realmente di un’antinomia dialettica) tra le due forme di complessità delle quali ho detto.

Un ultimo punto. Uno dei grandi progressi scientifici verificatosi nel corso dell’ultimo secolo dopo il 1960 (René Thom, Ilya Prigogine, Henri Atlan, Stuart Kauffman, James Crutchfield, John Holland del Santa Fe Institute for Complex Systems, ecc,) è stato quello che ha consentito di comprendere teoricamente e di modellare i processi di formazione degli ordini spontanei nei sistemi complessi di natura fisica e sociale. Le capacità auto-organizzative sono notevoli; allo stato attuale, è conseguentemente ragionevole pensare che prima o poi si arriverà a modellare le due forme di complessità alle quali ho accennato, fatto questo che dovrebbe cambiare radicalmente la nostra comprensione della politica.