Di fronte alla pubblicazione dei risultati della rilevazione sulle forze di lavoro del primo trimestre 2014 l’attenzione degli organi di informazione si è focalizzata sull’impressivo dato della disoccupazione giovanile (che ha raggiunto un tasso del 46%), spingendo qualcuno ad affermare addirittura che un giovane su due è disoccupato. Quest’ultima è in effetti un’esagerazione; in realtà ciò che il dato indica è che a fronte di 868.000 giovani tra i 18 ed i 24 anni che risultano occupati ve ne sono 739.000 che sono attivamente in cerca di lavoro. E’ dunque vero che per ogni giovane occupato c’è ne è uno disoccupato, ma –poiché il grosso della generazione (4,4 milioni di persone) è classificato tra gli inattivi- ce ne sono altri sei che studiano o si posizionano nel limbo dei “neet” (not engaged in education, employment or training): e dunque si può dire che è disoccupato un giovane su otto. Naturalmente questo non rende meno drammatico il dato del tasso di disoccupazione al 46% (che arriva al 59% se, considerando gli inattivi disponibili a lavorare, si utilizza il tasso di mancata partecipazione al lavoro), ma lo dimensiona più correttamente.
Il punto però è un altro, e cioè che non è la crescita della disoccupazione giovanile il vero fatto nuovo rivelato dalle indagini sul mercato del lavoro. Il numero dei giovani disoccupati è infatti certamente cresciuto negli anni della crisi: erano meno di 380.000 all’inizio del 2007, e sono oggi, come già riportato, quasi 740.000, dunque quasi raddoppiati (+95%). Ma non si tratta della fascia d’età dove la crescita è stata maggiore. Nello stesso periodo i disoccupati con 45 anni o più sono più che triplicati, passando da poco più di 250.000 ad oltre 880.000 (+247%!), e sono dunque oggi, in valore assoluto, più numerosi dei disoccupati con meno di 25 anni.
Il fatto che un disoccupato su quattro sia “più che adulto” non è irrilevante. Benché non sia politically correct dirlo, è legittimo pensare che la condizione di disoccupazione per un uomo o una donna di cinquanta anni, prevalentemente ex occupato e con una famiglia almeno parzialmente a carico, sia soggettivamente ed oggettivamente ancora più critica di quella di un ragazzo o di una ragazza ventenni che non hanno mai lavorato e sono in diversi casi in qualche modo coperti dal proprio ambito familiare. E’ un fatto molto negativo che a questi giovani sia negata la possibilità di andare a vivere per conto proprio e costruirsi una famiglia, ma forse è ancora più negativo che ad uomini e donne adulti sia sottratta la possibilità di mantenere la famiglia che hanno e l’abitazione in cui vivono.
Anche chi non condivide tale valutazione, certamente opinabile, non potrà comunque non convenire che la condizione in cui si trovano i disoccupati over 45 è comunque diversa da quella dei giovani in condizioni analoghe, e che le strategie e gli strumenti di politica attiva pensati per i secondi potrebbero non essere del tutto adatti ai primi. L’approccio alla ricerca del lavoro di una persona che ha già lavorato a lungo è diverso da quello di chi non ha mai lavorato, ed anche l’atteggiamento di chi offre lavoro è differente se si trova di fronte a persone alle prime esperienze o a individui con atteggiamenti e attitudini consolidate. Oltre la metà dei disoccupati di questa fascia d’età, peraltro, lo è da più di 12 mesi.
Eppure non è solo l’attenzione mediatica ad essere concentrata sulla disoccupazione giovanile (il che è in qualche modo comprensibile), ma lo è anche quella politica e istituzionale (il che è meno spiegabile). Si può infatti ragionevolmente sperare che a fronte dell’auspicata ripresa economica e produttiva (ed alla prevedibile ulteriore flessibilizzazione dei rapporti di lavoro) il picco di disoccupazione giovanile sia nel medio periodo progressivamente riassorbito (ancorché con impieghi instabili e al di sotto delle aspettative). Ma è presumibile che i meccanismi “automatici” di riattivazione della domanda di lavoro tenderanno a discriminare negativamente proprio le persone di età più avanzata, considerate meno flessibili e meno adattabili al cambiamento (o al ridimensionamento professionale e retributivo).
E’ dunque proprio nei riguardi di questa fascia che andrebbero individuate specifiche politiche attive del lavoro: in termini di assistenza alla ricerca (che non può avere le stesse caratteristiche di quella rivolta ai giovani o alle fasce intermedie), o di sostegno alla autorganizzazione. E’ in particolare su quest’ultimo versante che qualcosa andrebbe fatto subito in termini, se non di incentivazione, almeno di rimozione delle disincentivazioni, evitando ad esempio scelte cervellotiche e schizofreniche come l’incremento della pressione contributiva previdenziale sulle partite iva (in particolare su quelle “di ritorno”). Ma forse per far diventare la questione una priorità bisognerà aspettare una rilevazione dell’Istat da cui risulti che i disoccupati over 45 sono diventati più di un milione, la cifra tonda che potrebbe “fare notizia”. Purtroppo se continua così non ci sarà molto da aspettare.