Sarebbe semplicistico analizzare le gravi tensioni internazionali originatesi in Ucraina come un remake della “guerra fredda”. L’Unione sovietica non esiste più (in primo luogo come antagonista ideologico degli Stati Uniti e del mercato capitalistico), e le dinamiche geopolitiche sono ben diverse da quelle del 1989, con il crollo del Muro di Berlino, e del 1991, con la fine dell’Urss.
Nel 1997 Zbigniew Brzezinski, già consigliere del presidente americano Jimmy Carter e soprattutto animatore della Commissione Trilaterale, ritenuta una delle centrali della sinarchia planetaria, predisse che l’Ucraina sarebbe stata una seria candidata all’adesione all’Ue e alla Nato tra il 2005 e il 2015. Secondo il politologo statunitense dal 2010 l’Ucraina poteva collegarsi con Francia, Germania e Polonia creando il ‘nucleo critico’ della sicurezza futura dell’Europa, fornendo un’ancora orientale all’Europa atlantista.
Le analisi di Brzezinski, contenute nel suo saggio La Grande Scacchiera e su Foreign Affairs del settembre-ottobre 1997, evidenziavano che per quella nazione si imponeva una scelta draconiana: o diventare parte dell’Europa comunitaria o essere reintegrata nella Confederazione degli Stati Indipendenti egemonizzata dalla Russia.
A sua volta l’Istituto Nazionale di Studi Strategici di Kiev, sponsorizzato dal governo ucraino, atlantista con stretti legami con i think tank occidentali, pubblicò sempre nel 1997 un report che sosteneva l’ipotesi secondo cui “fintanto che l’Ucraina adotta una politica oscillante simmetricamente tra i poli russo e occidentale,  subirà pressioni dall’Occidente, in quanto quest’ultimo non è interessato a una Ucraina forte quale potenziale componente della Russia, nel caso di un avvicinamento dell’Ucraina alla Federazione russa”. Lo studio affermava che l’Ucraina doveva perseguire un processo “d’integrazione europeo ed euro-atlantista, approfondendo le relazioni con i paesi europei e iniziando un progressivo allontanamento dalla zona eurasiatica d’influenza russa”; e allo stesso tempo “cercare relazioni con gli Stati Uniti per una partnership strategica basata sul rafforzamento delle contraddizioni tra Washington e Mosca”. Le conseguenze sono quelle dei giorni nostri: l’Ucraina, perdendo la funzione di “cuscinetto” tra spinte contrapposte d’influenza geopolitica (non a caso Ucraina significa “area di frontiera”),  non può aspettarsi supporto strategico dagli Stati Uniti a meno che non si allontani dalla Russia, perché Stati Uniti e Russia sono inevitabili avversari geopolitici.
In ogni caso con la crisi ucraina l’espansione verso est della Nato (e quindi degli Usa) degli ultimi 20 anni si rafforza, e la strategia atlantista si inserisce nel  perno ucraino, uno dei principali cinque “perni geopolitici” che proprio Brzezinski aveva identificato nel 1997 (gli altri sono Azerbaijan, Corea del Sud, Turchia e Iran).
Al contrario, a differenza della crisi in Georgia dell’agosto 2008, in Ucraina l’Unione europea non è riuscita a giocare un ruolo diplomatico importante. Fatta eccezione per la mediazione dell’accordo del 21 febbraio (che è saltato nel giro di poche ore), Bruxelles ha in larga parte subito il succedersi degli eventi. Dal 2009, con il Partenariato orientale, le politiche europee verso i paesi post-sovietici hanno assunto un carattere geopolitico e portato ad uno scontro con la Russia, che rischia di danneggiare gli interessi economici della stessa Unione, in cui spicca la miopia (e la volontà di potenza economica) della Germania, alla ricerca di nuovi mercati da egemonizzare.
In generale gli Usa e la Ue speravano di isolare Mosca nello scacchiere internazionale, ma il tentativo è in larga parte fallito. Nonostante l’integrità territoriale sia un principio caro anche a grandi potenze non allineate con Usa e Ue (come Cina e India), la loro presa di posizione in materia è stata molto meno netta di quanto ci si poteva aspettare. Essi non intendono isolare la Russia in una crisi diplomatica con l’Occidente e condividono l’obiettivo di riorganizzare l’ordine globale secondo un modello multipolare non più dominato dagli Stati Uniti. Dalla prospettiva dei Brics la Russia è una pedina fondamentale che ha a disposizione mezzi militari, energetici e diplomatici utili per erodere lo strapotere del “Washington Consensus”. In questo contesto, parlare di “isolamento della Russia” non ha senso, in quanto equivale a ignorare la posizione di una fetta enorme (sia demograficamente che economicamente) della comunità internazionale.