Caro Prof. Petitot,

la ringrazio dell’opportunità che mi ha offerto di approfondire e di chiarire, attraverso il dialogo, concetti che anch’io trovo di grande importanza per capire i problemi dell’uomo di oggi, ma anche e soprattutto per capire la natura del giusto rapporto dell’uomo con i suoi simili e con l’ambiente che lo circonda.
In particolare, mi ha fatto piacere apprendere che tra noi esistono numerosi punti sui quali concordiamo. Nella sue osservazioni, apparse sulla “Newsletter di Mondoperaio” del 22 marzo scorso, mi ha però fatto sapere che ne esistono alcuni sui quali continuiamo a rimanere lontani l’uno dall’altro. Rispetto a questi ultimi, tuttavia, sono del parere che la nostra vicinanza possa essere “migliorata”. Provo qui di seguito a dire come. Lei giudicherà.

1. Lei afferma che, con riferimento alla complessità cognitiva dell’uomo, occorre distinguere due forme evolutive; da una parte, un’evoluzione “verticale” che ha comportato un arricchimento a titolo individuale, particolarmente significativo, delle facoltà cognitive; dall’altra, un’evoluzione “orizzontale”, che ha comportato una divisione del lavoro e un’intelligenza “sparsa” (swarm intelligence) che hanno determinato l’emersione di facoltà cognitive collettive all’origine dell’eusocialità.

Lei afferma ancora che l’intelligenza umana è un fenomeno complesso, il cui sviluppo dipende, sia dai ritmi con cui cresce il livello cognitivo individuale, sia dai ritmi coi cui si sviluppa l’eusocialità di una data collettività di individui. Questo, per lei, sarebbe il motivo per cui Bernard de Mandeville avrebbe ragione nel sostenere il significato implicito alla sua “Favola delle api”. Utilizzando il genere letterario della favola, egli evidenzierebbe un’analogia che lei formula nel modo seguente: l’intelligenza umana sta all’Homo Sapiens Sapiens come l’arnia sta all’ape: da una parte, gli individui intelligenti e razionali, che seguendo regole di comportamento e d’azione valide ed accettate trasformano le numerose interazioni sociali in un ordine eusociale spontaneo; dall’altra, la complessità interna di quest’ordine, non-comprensibile dall’intelligenza e dalla razionalità degli uomini. La mancata comprensione del processo attraverso il quale si forma l’ordine spontaneo sarebbe la causa degli effetti inintenzionali dei comportamenti e delle azioni umane.

Sulla base degli assunti sopra indicati, pur concordando sul fatto che le capacità cognitive dell’uomo, con l’ausilio delle istituzioni e delle regole, permettono di formulare e di rendere operativi dei codici linguistici produttivi di eusocialità, lei afferma anche che, dal punto di vista della prospettiva hayekiana di analisi, che lei condivide, non possono esistere dei sensi esistenziali eusociali; né possono esistere rappresentazioni della comprensione della complessità cognitiva “orizzontale” propria della catallattica (ovvero, dell’attività sociale finalizzata alla soddisfazione degli stati di bisogno degli uomini). Ciò perché la catallattica, generando una “cascata” di conseguenze che possono essere previste e controllate solo in minima parte, renderebbe impossibile per gli uomini socializzare qualsiasi forma di intenzionalità, a causa dell’inintenzionalità dei risultati finali, sebbene perseguiti attraverso comportamenti ed azioni intenzionali.

La mancata possibilità di perseguire fini intenzionali e certi esclude che gli uomini possano essere i signori del loro destino, anche quando fossero membri di una grande società aperta; ciò perché, anche all’interno di questo tipo di società, perseguire intenzionalmente un destino implicherebbe conseguenze non prevedibili e un aspetto della non-prevedibilità delle conseguenze dei comportamenti e delle azioni umane è che, all’interno di un’organizzazione eusociale complessa, non sarebbe possibile disporre delle capacità cognitive di “prevederne” la portata.

2. Lei colloca il punto di cesura in corrispondenza del quale sarebbero emerse le due forme della complessità evolutiva dell’uomo in un tempo molto vicino ai nostri giorni, ovvero in prossimità dell’epoca in cui si sono formate le grandi civiltà urbane, dopo la sedenterizzazione dei cacciatori-raccoglitori, l’invenzione dell’agricoltura, l’organizzazione delle attività di allevamento, la messa a punto delle tecniche e delle geometrie urbane, della scrittura, del saper far di conto, delle vie di comunicazione terrestri e marittime. In realtà, la cesura deve essere retrocessa ad un tempo di molto anteriore, ovvero in corrispondenza del momento in cui la linea evolutiva dell’Homo Sapiens ha incominciato a sviluppare il cervello dell’animale-uomo e ad aumentare le sue capacità cognitive.

La cesura nell’evoluzione della complessità cognitiva segna uno spartiacque molto importante, nel senso che ad esso può essere riferito il significato dell’analogia intrinseca alla “Favola delle api”, secondo cui l’intelligenza umana starebbe all’Homo Sapiens Sapiens come l’arnia sta all’ape.

Ora, per capire il senso dell’analogia, occorre considerare l’evoluzione dell’uomo; questa – la ricordo a me stesso, perché lei, Prof. Petitot, di questo argomento è sicuramente maestro – secondo la paleoantropologia standard, è la risultante dell’insieme degli eventi attraverso cui si è compiuto il processo dell’ominazione. Lo svolgimento di questo processo è stato caratterizzato dall’evoluzione naturale dei mammiferi in primati, l’ordine al quale appartiene l’uomo. I primati originari erano animali arboricoli, con mani e piedi prensili; progressivamente, alcuni primati hanno acquistato la capacità di spostarsi da un ramo all’altro adottando la brachiazione. Questa forma di locomozione, ha comportato, a livello della colonna vertebrale, delle modifiche che hanno consentito la successiva evoluzione verso la stazione eretta. Successivamente (tralascio per comodità la datazione degli avvenimenti), si è formato un gruppo di primati, le Driopitecine, con caratteri umanoidi, conducenti una vita ancora arboricola; da esse sono derivate le Ramapitecine, la cui comparsa è avvenuta quando un lungo periodo freddo ha determinato il ritiro della foresta tropicale e lo sviluppo delle savane, con una vegetazione che male si accordava con la vita arboricola.

I primi ominidi appartengono al genere Australopithecus; essendo essi bipedi per avere rimosso la necessità di impiegare l’arto superiore per la locomozione, hanno potuto migliorare la manipolazione (contrapposizione del pollice al resto delle dita) e la presa degli oggetti. Da una specie dell’Australopithecus, quello Africanus, ha avuto origine l’Homo Abilis, in grado di produrre rudimentali utensili in pietra scheggiata, e da quest’ultimo è derivato l’Homo Erectus, più progredito nelle dimensioni del cervello, nella fabbricazione degli utensili, nel cacciare grandi animali, con la propensione a stabilirsi in accampamenti tribali. In questo modo, l’Homo Erectus ha potuto sviluppare il linguaggio, che ha favorito il miglioramento dell’organizzazione tribale, per essere poi gradualmente sostituito, circa 200.000 anni fa, dall’Homo Sapiens, che ha notevolmente aumentato il sentimento sociale di appartenenza alla tribù. Circa 90.000 anni fa, è comparso l’uomo moderno, l’Homo Sapiens Sapiens, che ha incominciato a trasformare ossa e corna per ottenere utensili per il controllo e la trasformazione dell’ambiente circostante; ha sviluppato, inoltre, il senso artistico, testimoniato dai numerosi ritrovamenti di pitture rupestri, statuette di animali e figure umane, dall’addomesticamento degli animali ed dalle prime forme di produzione agricola.

Senza entrare negli arcani (almeno per ora) delle neuroscienze, anche il cervello, come ogni altro organo della struttura dell’Homo Sapiens Sapiens, è stato sottoposto alla pressione evolutiva secondo le leggi darwiniane. Lo studio dell’evoluzione del cervello umano ha permesso di comprendere in che misura le funzioni cognitive si sono sviluppate lungo la scala filogenetica e qual è stata l’evoluzione della relazione tra struttura, sviluppo e funzione del cervello umano. In conseguenza della pressione evolutiva, il “sistema cervello” ha raggiunto una complessità strutturale che ha permesso la comparsa del pensiero astratto e di altre capacità cognitive tipicamente umane. Questa spiegazione è normalmente considerata compatibile con l’ipotesi, più prettamente antropologica, secondo la quale lo sviluppo dell’intelligenza (complessità cognitiva) è stato un prodotto della vita sociale in grandi gruppi.

Per “fare società”, secondo forme sempre più attraenti, infatti, è stato necessario sviluppare una capacità superiore, quale è stata la comprensione delle intenzioni e delle emozioni dell’altro; un processo, questo, dal punto di vista evolutivo, tutt’altro che rapido, che ha consentito di spiegare il lungo vuoto temporale che si è formato tra la comparsa dell’Homo Sapiens Sapiens e la formazione, circa 10.000 anni fa, della complessità cognitiva sufficiente a favorire l’invenzione dell’agricoltura e la sedentarizzazione dei cacciatori-raccoglitori. L’intervallo ha espresso il tempo impiegato dal “cervello-base” per acquisire le modifiche necessarie a consentire la formazione della complessità strutturale e cognitiva di quello attuale.

Sino al momento in cui lo sviluppo del cervello ha raggiunto le dimensioni che hanno dato il via all’inizio dello sviluppo delle capacità cognitive è stata l’”arnia a condizionare l’ape” (di quest’ultima gli ominidi non erano che una variante); mentre, dopo l’inizio dello sviluppo del cervello e della capacità cognitiva, è stata “l’ape che, in maniera crescente, ha incominciato a condizionare l’arnia” (fuori metafora, ciò ha significato che, a partire da quel momento, la crescita delle capacità cognitive e dell’interazione tra gli individui ha originato l’euoscialità). Inizialmente, questo processo è avvenuto in modo lento e impercettibile, ma con l’andar del tempo l’evoluzione “verticale” e quella “orizzontale” della complessità cognitiva hanno incrementato notevolmente la consapevolezza dell’uomo di poter diventare il signore del “proprio destino”; ciò è accaduto nei limiti in cui le capacità predittive umane, con l’ausilio della conoscenza scientifica e tecnologica, sono aumentate in modo tale da consentire agli uomini il “condizionamento sotto controllo dell’arnia”, cioè della struttura sociale all’interno della quale gli uomini stessi erano inseriti e della più ampia struttura ambientale nella quale l’organizzazione sociale insisteva.

3. Ovviamente, la predittività non ha comportato la rimozione della catallattica e dell’imprevedibilità parziale dei suoi esiti, ma la necessità di adottare regole comportamentali idonee, come afferma Hans Jonas, a fare corrispondere al ritmo della crescita della complessità cognitiva un’etica della responsabilità, per “vincolare” le crescenti capacità d’iniziativa e di azione degli uomini. Prima della cesura, in corrispondenza della quale sono emerse le due forme evolutive della complessità evolutiva, l’etica della responsabilità prevalente era fondata su postulati molto semplici: (i) la conoscenza dell’architettura della struttura sociale (arnia), determinata dal livello dello sviluppo cognitivo, era data una volta per tutte (perché percepita come immutabile), per via del fatto che la conoscenza aumentava molto lentamente; (ii) sulla base di una conoscenza siffatta, era anche determinato lo stato di bisogno della comunità da soddisfare; (iii) la portata dei comportamenti e delle azioni degli uomini, e perciò della loro responsabilità, era così tendenzialmente definita.

Questi postulati, via via che la complessità cognitiva degli uomini è aumentata hanno perso la loro adeguatezza; in altri termini, la natura dei comportamenti e delle azioni degli uomini è cambiata sino ad implicare un mutamento dell’etica della responsabilità, perché di quest’ultima fosse migliorato il suo adeguamento ai maggiori rischi connessi alla soddisfazione di stati di bisogno crescenti e più complessi. Dopo la cesura, la conoscenza ha consentito comportamenti ed azioni con cui sono stati piegati alle esigenze umane i vincoli esterni all’organizzazione sociale. Via via che il livello di soddisfazione degli stati di bisogno è aumentato, gli uomini hanno potuto potenziare ed allargare la loro organizzazione sociale (l’arnia) mediante un “gioco cooperativo”.

In tal modo, gli uomini stessi sono pervenuti a risultati che altrimenti sarebbero stati loro preclusi. E’ accaduto così che gli uomini, dopo la cesura, sono diventati gli artefici della loro esistenza sociale, con cui, superando i vincoli e gli ostacoli dello stato di natura, hanno potuto affievolire gli impedimenti. L’ambiente esterno, che i comportamenti e le azioni degli uomini non alteravano o alteravano in modo lento e impercettibile, è stato il proscenio di tutte le loro iniziative; l’evoluzione del livello cognitivo, perciò, ha oscillato tra ciò che autonomamente dagli uomini si conservava immutabile e ciò che, invece, mutava: quel che perdurava era l’ambiente esterno, mentre ciò che cambiava erano gli esiti dei comportamenti e delle azioni umani, che, in quanto mutanti per effetto dell’aumentato livello cognitivo secondo linee “verticali” ed “orizzontali”, originavano un impatto evolutivo sull’organizzazione sociale, che prescindeva dai caratteri auto-organizzativi della forma del “vivere insieme”, prevalente prima della cesura.

Dopo la cesura, connessi agli esiti dell’agire umano sulla struttura sociale, il bene ed il male non erano oggetto di previsioni temporali. Essi, cioè, non implicavano una valutazione dei fini delle azioni; ciò perché tali fini avevano una forte dimensione di prossimità nel tempo e nello spazio, implicanti una responsabilità del “qui ed ora”.

4. Questo tipo di responsabilità nel tempo è però cambiato, a causa dell’espansione spaziale e temporale delle sequenze di causa ed effetto, determinate dai ritmi delle dinamica cognitiva e della sua traduzione in tecnologie, anche quando questi ritmi erano originati dalla propensione a perseguire obiettivi immediati. In questa situazione, per dare un fondamento alla responsabilità dell’agire degli uomini, la conoscenza tecnico-scientifica è divenuta un elemento irrinunciabile; il fatto però che non sia stato possibile utilizzare questa conoscenza, a causa del ritardo rispetto ad essa della conoscenza predittiva, ha comportato una costante preminenza della capacità di agire su quella di prevedere, valutare e giudicare gli effetti dei comportamenti e delle azioni degli uomini sull’ambiente esterno e sul sistema sociale. E’ questo scarto fra capacità di agire e capacità di prevedere ad aver dato forza all’ipotesi dell’inintenzionalità degli esiti delle azioni umane.

Ma, ora, posto che il futuro in astratto non possa essere previsto, ci si può affrancare dall’incongruenza che gli uomini possano solo conseguire fini inintenzionali attraverso comportamenti ed azioni intenzionali distinguendo il breve periodo da quello medio-lungo, ed assumendo come criterio di divisione tra le due dimensioni temporali il livello di sviluppo cognitivo raggiunto. Su queste basi, il breve periodo è quello per il quale gli uomini possono disporre di capacità predittive affidabili (considerate però in una prospettiva falsificazionista nel senso di Karl Raimund Popper); mentre il medio-lungo periodo è quello per il quale gli uomini non dispongono di capacità predittive certe. Sennonché, se le capacità predittive sono sempre in ritardo rispetto alla capacità di agire, anche con riferimento al breve periodo il controllo sugli siti finali dei comportamenti e delle azioni degli uomini dovrebbe essere fondato sulla paura; questa, come dice Jonas, diventerebbe così il surrogato del deficit predittivo, alimentata dai caratteri auto-organizzativi spontanei dell’organizzazione sociale.

La paura, però, impedirebbe di poter fruire delle opportunità offerte dall’aumento della complessità cognitiva resa possibile dal progresso scientifico-tecnologico, mortificando ciò che per gli uomini moderni conta maggiormente: soddisfare i propri bisogni in funzione delle opportunità offerte dall’aumentato livello della complessità cognitiva. Per evitare questa situazione indesiderabile, l’etica della responsabilità impone che gli esiti dei comportamenti e delle azioni degli uomini possano essere giustificati nei limiti in cui la capacità predittiva può consentire una plausibile valutazione dei fini perseguiti intenzionalmente, con comportamenti ed azioni intenzionali del tutto compatibili con la conservazione dell’ambiente esterno e con la tenuta dell’organizzazione complessiva dello “stare insieme”.

Sulla base di quanto sin qui detto, mi consenta di concludere, Prof Petitot, affermando che, assodato che nessuna “forza predittiva” può rappresentare il futuro del medio-lungo periodo nel presente, le “doti” auto-organizzative del sistema sociale rese operanti dal marcato sarebbero totalmente inadeguate rispetto all’esigenza di evitare il rischio connesso all’inintenzionalità degli obiettivi. Le doti auto-organizzatve del sistema sociale farebbero emergere solo la valutazione degli interessi attuali, nel senso che, mancando di rappresentare gli interessi futuri, il futuro “responsabilizzato” non sarebbe in grado di esercitare il suo potere di influenza per imporre che sia rispettato nell’interesse degli uomini.

5. Un’ultima osservazione. Il mio rifiuto di assimilare l’evoluzione economica all’evoluzione genetica non mette in discussione le indubbie analogie che esistono tra l’evoluzione culturale e la seconda forma evolutiva. Tuttavia, mi sento di ribadire che l’evoluzione culturale e l’evoluzione genetica sono strutturalmente diverse, nel senso che a renderle diverse sono la diversa velocità e l’incertezza dei mutamenti: tempi storici e intenzionalità per l’evoluzione culturale; tempi geologici e casualità per l’evoluzione genetica.

All’interno delle organizzazioni sociali, i comportamenti e le azioni degli uomini sono plasmati dalla cultura, la cui salvaguardia e il cui potenziamento sono alcuni dei compiti dell’organizzazione complessiva del sistema sociale. Poiché i valori trasmessi dalla cultura non fanno parte della natura biologica dell’uomo, i codici culturali, essendo innaturali, necessitano dell’insegnamento istituzionalizzato; questo, nel mondo attuale, è tanto più necessario, quanto maggiori sono i rischi connessi alla natura dei comportamenti e delle azioni umane. E quanto maggiori sono questi rischi, tanto maggiore è la necessità che il sistema culturale, del quale dispone il sistema sociale, renda costantemente adeguata la capacità predittiva alla capacità di gire.