Luca Maria Negro è un pastore battista, direttore (dal 2010 fino a febbraio 2016) del settimanale delle chiese battiste, metodiste e valdesi Riforma. Dal dicembre 2015 è presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI). Lo abbiamo intervistato in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio).

  • Pastore Negro, ci può ricordare, in estrema sintesi, come è nata la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani? Quali sono quest’anno i punti di riferimento, per dir così?

La Settimana ha più di cent’anni, se prendiamo come data di inizio il 1908, anno in cui padre Paul Wattson propose un ottavario di preghiera per l’unità compreso tra due date simboliche: la festa della cattedra di san Pietro (18 gennaio) e quella della conversione di san Paolo (25 gennaio). Queste sono le lontane origini della Settimana, ma proprio quest’anno ricorre il 50° anniversario della effettiva celebrazione ecumenica della Settimana. Nel 1966, infatti, la Commissione “Fede e Costituzione” del Consiglio ecumenico delle chiese e il Segretariato vaticano per la promozione dell’unità dei cristiani decisero di preparare insieme i testi ufficiali della Settimana. Ogni anno il versetto biblico di riferimento e le liturgie vengono proposte dai cristiani di un diverso paese: quest’anno è toccato ai cristiani della Lettonia, che hanno scelto un tema ispirato alla prima Lettera di Pietro, “Chiamati ad annunziare a tutti le opere meravigliose di Dio”.

  • A un primo sguardo, sembrerebbe esser più importante, oggi, il dialogo fra le religioni (si pensi ai rapporti fra cristiani, ebrei, musulmani, induisti e non solo) che quello fra le diverse confessioni cristiane. Cosa si può replicare a tale obiezione?

Certamente, oggi il dialogo interreligioso è di primaria importanza, ma questo non significa svalutare l’incontro ecumenico fra le diverse confessioni cristiane. Proprio il dialogo ecumenico, infatti, ha posto le basi – soprattutto metodologiche – per un efficace dialogo interreligioso. Dimenticando il dialogo ecumenico si rischia di fare delle semplificazioni, di dimenticare che il cristianesimo è un fenomeno plurale e variegato – come d’altronde lo sono tutte le grandi fedi viventi.

  • La parola preghiera e il relativo concetto sembrerebbero, per certi versi, fuori dal tempo, dal nostro tempo, come se se ne fosse smarrito il senso. Sempre in estrema sintesi, cosa si intende davvero per preghiera?

La preghiera non è solo “parlare a” Dio; è prima di tutto ascolto della Parola di Dio, testimoniata dalle Scritture. Nella preghiera ecumenica, poi, ci mettiamo insieme all’ascolto della Parola, e quindi al tempo stesso all’ascolto gli uni degli altri. La Settimana di preghiera per l’unità, insomma, è una preziosa occasione di dialogo con l’Altro (con la A maiuscola) e con l’altro. Aggiungerei che la preghiera non può essere disgiunta dall’azione. Per citare il titolo di un famoso film degli anni ’70, “Non basta più pregare”: occorre che la preghiera ci spinga all’azione, alla testimonianza comune per l’unità e la pace in un mondo pieno di conflitti e ingiustizie.

  • Vuole fare un cenno all’importanza specifica di tale settimana per un Paese come il nostro, nel quale la voce della chiesa di Roma risuona di gran lunga più forte?

In Italia la Settimana è un’occasione preziosa per conoscere la vita delle altre chiese cristiane: quelle protestanti, presenti nel nostro Paese da secoli e spesso duramente perseguitate, ma anche quelle ortodosse, la cui consistenza numerica è aumentata negli scorsi decenni con l’immigrazione. Un’occasione per scoprire modi diversi di vivere e testimoniare la fede in Cristo: non necessariamente contrapposti, ma diversi, espressioni di una “diversità riconciliata”, un concetto nato in ambito protestante che papa Francesco ha fatto pienamente suo ripetendo, nella sua visita alla Chiesa valdese del giugno 2015, che “l’unità che è frutto dello Spirito Santo non significa uniformità”.

Se poi volessimo evidenziare un limite della Settimana per l’unità, direi che è un peccato che, nel nostro Paese, l’attenzione all’ecumenismo emerga solo una volta all’anno. Abbiamo fatto della Settimana una sorta di “ghetto”, non in senso spaziale ma temporale. Per una settimana ci ricordiamo di essere ecumenici: e nelle altre 51 settimane? Solo in alcune città e regioni, purtroppo, esistono organismi ecumenici permanenti, “consigli locali” di chiese cristiane. Sarebbe ora di creare, anche in Italia, un organismo ecumenico nazionale che dia continuità e coerenza all’impegno ecumenico.