E’ morto Paolo Prodi. L’ultimo suo scritto lo pubblicammo noi, nel numero di maggio. Lo riportiamo di seguito, e non solo perché il modo migliore per ricordare chi se ne è andato  è continuare a dialogare col suo pensiero: anche perché la sua analisi magistrale spiega la Chiesa di papa Francesco meglio di tante agiografie mediatiche.

Io lo avevo conosciuto alla fine degli anni ’80, quando era preside della facoltà di Lettere dell’Università di Trento, dopo esserne stato rettore nei turbolenti anni ’70.  A rigore, anzi, di quell’Università – sorta nel 1962 come Istituto superiore di scienze sociali – era stato il primo rettore vero e proprio: perché solo nel 1972 altre facoltà si erano aggiunte a quella di Sociologia (la prima in Italia), e quindi l’ateneo si era formalmente adeguato all’ordinamento universitario nazionale.

Ancora da preside, dopo averci provato da rettore, voleva evitare che la “normalizzazione” di quella coraggiosa iniziativa culturale coincidesse col destino dei tanti altri piccoli atenei che nel frattempo erano proliferati in Italia. Coltivava il progetto di caratterizzare l’ateneo trentino come centro di cultura italo-germanica: ma a Trento non c’erano più né un visionario come Bruno Kessler (il presidente della Provincia che aveva fondato l’Istituto) , né gli studenti che nel ’68 avevano assunto la leadership nazionale del movimento studentesco.

Ex malo bonum, comunque: perché dopo quella delusione Paolo Prodi diede il meglio di sé nella produzione scientifica. E le sue opere ci accompagneranno a lungo, per diradare la nebbia che avvolge l’Occidente.