Sesto San Giovanni non era solo la Stalingrado d’Italia. Stalingrado lo era soprattutto grazie al sindaco Alberganti, per il quale anche Cossutta era un pericoloso deviazionista. Ma Sesto aveva anche un cuore “bianco”. Lo facevano battere i metalmeccanici della Cisl e gli aclisti, prima ancora che i democristiani. E forse anche grazie alla loro testimonianza minoritaria qui la deindustrializzazione è stata meno drammatica che altrove.
I cattolici sestesi li conobbi quando ero ragazzo. C’era Lorenzo Cantù, operaio specializzato alla Magneti Marelli e leader della Fim, che per la prima volta mi fece visitare una grande fabbrica e conoscere gli operai in carne ed ossa. E c’era, giovane quasi quanto me, Giovanni Bianchi: che adesso è scomparso e che avrebbe fatto prima il presidente nazionale delle Acli e poi, nel 1994, il presidente di quel Partito popolare col quale si estinse il cattolicesimo politico in Italia.
Eravamo amici, ma non andavamo d’accordo. Per lui c’erano confini identitari che non era opportuno varcare: per cui negli anni ’70 non condivise la scelta di Labor e negli anni ’80 quella di Carniti. Ma sapeva difendere i confini anche nel suo campo: per esempio quando – a colpi di citazioni di Maritain – bisognava difendere l’autonomia del laicato cattolico dalle tentazioni integraliste dei nipotini di don Giussani.
Paradossalmente, da presidente del Ppi, ne provocò la dissoluzione proprio per marcare il territorio: quando, per evitare che lo facessero altri, si affrettò a promuovere la candidatura di Romano Prodi alla guida del centrosinistra mentre Rocco Buttiglione, segretario del partito, stava trattando con Berlusconi l’adesione dei popolari al centrodestra. Felix culpa, forse. Non tale, comunque, da incrinare un’amicizia durata mezzo secolo.